Angkor (Cambogia) e la precessione degli Equinozi -L'urbanistica di un'antica città tra mito e astronomia-

(Giorgio Casanova)

 

1. Introduzione

 

L'occasione di di conoscere l’antica cultura Khmer mi fu data da un viaggio in Cambogia nel 2004. Si trattava di un viaggio che desideravo da molti anni ma che fu impedito dalla lunga terribile guerra durata più di trenta anni che coinvolse il Vietnam e, in particolar modo, la Cambogia. Quando nel 2004 mi fu proposto un vacanza in Thailandia mi balenò subito la mai sopita idea di visitare Angkor l'antica capitale del regno Khmer. Il viaggio non era organizzato e occorreva arrangiarsi in qualche modo.
Angkor è particolarmente interessante, non solo per i grandiosi templi e per la singolare (per noi) architettura ma, sopratutto, per il particolare significato simbolico del suo impianto urbanistico impostato sulla precessione degli equinozi e su altre valenze astronomiche. Certamente questa valenza non è così facile da rilevare. Nel secolo XII, quando fu realizzata Angkor Thom, la città quadrata, astronomia e mito religioso erano assai vicini. La Cambogia, gran parte dell’Indocina e l’Indonesia erano stati colonizzati dagli indiani che vi avevano importato anche la loro religione principale – l’Induismo – e con esso i suoi miti, tra cui quello del frullamento dell’oceano di latte, mito che interessa direttamente la fondazione (o meglio rifondazione) della suddetta città. l suddetto mito del frullamento dell’oceano è raffigurato in molti templi indiani, in ruppi statuari e bassorilievi, è riprodotto anche su disegni e pitture nei numerosissimi e antichi ibri religiosi dell’India, ma non mancano esempi di questo mito neppure tra gli antichi Egizi ed i
Maya, sebbene siano ancora più difficile da decodificare in confronto alle immagini lasciateci alla civiltà indiana. Ne fece un prezioso elenco Giorgio de Santillana in un’opera in cui cercò di siegare gli antichi miti con i quali i popoli del passato “raccontavano” alcuni fenomeni atronomici [1].

                   


Per rendersi conto della diffusione del mito nell’antica civiltà indù basta sfogliare i trattati di storia dell’arte e i testi religiosi relativi. Resta però il problema dell’interpretazione non sempre facile da dimostrare. La consapevolezza che l’asse della Terra si comportasse come una trottola, con il conseguente spostamento (apparente) delle costellazioni poco alla volta (un grado ogni 72 anni, fenomeno noto anche agli astronomi greci) nonostante avessero strumenti scientifici (per quanto ci è dato sapere) assai primitivi, denota che erano però degli attenti osservatori. C’era però una differenza tra gli astronomi greci e quelli indiani. Per i primi il tutto ritornava al suo posto dopo molte migliaia di anni (il Grande Anno Platonico) [2], mentre per gli Indiani si trattava di un’oscillazione provocata dalla lotta tra i Deva e gli Asura cioè tra gli dèi e i demoni, personaggi della mitologia indù che, confrontati alla cultura religiosa occidentale somigliano molto agli angeli e i diavoli dell’ebraismo e del cristianesimo, il che ci riconduce all’eterna lotta tra il bene e il male.
De Santillana fece questo riferimento dell’antichità classica sul fenomeno della precessione. “Per la sua grande lentezza e la sua impercettibilità nell’arco della vita umana, si è dato per scontato che nessuno avrebbe potuto accorgersi della precessione prima del 127 a.C., anno della presunta scoperta del fenomeno da parte di Ipparco, il quale scoprì e dimostrò che la precessione ruota intorno al polo dell’eclittica. Si dice che per scoprire questo moto nel breve spazio di un secolo sarebbero stati necessari strumenti quasi moderni, e questo è certamente
vero. Ma nessuno sostiene che la scoperta sia stata il frutto di osservazioni fatte durante un solo secolo, e lo spostamento di un grado ogni settantadue anni, accumulandosi secolo dopo secolo, produrrà spostamenti sensibili in determinate posizioni cruciali, a condizione che gli osservatori siano sufficientemente attenti e scrupolosi e sappiano tenere una documentazione. La tecnica di osservazione era relativamente semplice:si fondava sul sorgere eliaco delle stelle, che rimase elemento fondamentale dell’astronomia babilonese. Il telescopio dell’antichità, come ha detto Sir Norman Lockyer, era la linea dell’orizzonte. Se ci si accorgeva che una certa stella, usa a sorgere subito prima del sole equazionale, non era più visibile in quel giorno, era chiaro che gli ingranaggi del cielo si erano spostati. Se la stella era l’ultima di una data figura zodiacale, ciò significava che l’equinozio stava entrando in un’altra figura. Inoltre, non vi è dubbio alcuno che la più lontana antichità fosse già consapevole dello spostamento della Polare. Ma chi era in grado di mettere questi due moti in relazione fra di loro? È su questo interrogativo che gli specialisti moderni, ciascuno operante dal proprio punto di vista, hanno esitato a lungo”[ 3].
La terra si comporta come un enorme giroscopio mantenendo sempre la sua inclinazione. Il suo asse descrive un cerchio che a compiere un giro completo impiega 25.920 anni. È assai improbabile – continua il De Santillana – che Ipparco e Tolomeo abbiano potuto comprendere questo meccanismo, ma ne descrissero soltanto il moto, poiché la fisica dinamica è venuta al mondo solo con Galileo nel XVII secolo, circa 1700 anni dopo le scoperte di Ipparco [4]. Per capire i ragionamenti che facevano gli antichi su questo grandioso fenomeno occorre calarsi nel loro mondo, caratterizzato dai cambiamenti molto lenti: “in un arco di tempo di 1000 anni, gli antichi osservatori furono in grado di discernere, nello spostamento secolare del Gran Giroscopio (è da qui infatti che ha origine la parola “secolare” usata ora in fisica meccanica), un moto che copre circa 10 gradi. Una volta in sintonia con il moto secolare, essi riuscirono ad  individuare, nel suo volgersi annuale nel ciclo delle stagioni, nel moto esasperatamente lento del polo nel corso degli anni, un punto che appariva intrinsecamente più stabile del polo stesso; era il polo dell’eclittica, spesso chiamato il Buco Aperto del Cielo, perché non è contrassegnato da alcuna stella. Nella loro mente presero forma le simmetrie della macchina; ed era davvero la macchina del tempo come la intende Platone: immagine mobile dell’eternità. Essa descriveva le generazioni del tempo stesso, il simbolo ciclico dell’eternità: ciclo dopo ciclo, giù giù fino agli spostamenti più piccoli appena percettibili [5]. Tuttavia, questa macchina del tempo dal funzionamento uniforme poteva essere contrassegnata da stazioni importanti. L’inclinazione giroscopica dà luogo ad uno spostamento continuo dell’equatore celeste, il quale interseca il cerchio inclinato dell’eclittica lungo una serie regolare di punti con moto uniforme da est ad ovest. Ora i punti dove i due cerchi si incrociano sono i punti equinoziali. Il Sole, pertanto, percorrendo l’eclittica nel corso dell’anno, incontra l’equatore in un punto che, col passare degli anni, si sposta lungo la fascia dei segni zodiacali. Questo è quanto si intende per precessione degli equinozi: essi precedono perché si muovono in senso contrario a quello dell’ordine progressivo dei segni che il Sole stabilisce nel suo percorso annuale” [6].

Dal principio dell’età storica l’equinozio di primavera si è naturalmente spostato attraverso il Toro, l’Ariete e i Pesci, un settore di solo un quarto di tutto il cerchio della precessione. Non si sapeva se si trattasse effettivamente di un cerchio o di un’oscillazione (come pensavano gli indiani). Sembra che la teoria dell’oscillazione abbia esercitato sugli antichi mitografi un’attrazione maggiore. Sino a Copernico però, non si era capito la cosa principale cioè che non era il cielo ad “oscillare” ma era la Terra che con il suo movimento a “trottola” lo faceva sembrare tale. Per gli antichi mitografi la precessione era un comportamento misteriosamente preordinato della sfera celeste o del cosmo del suo insieme, un vasto disegno impenetrabile del fato stesso, ove ad un’età del mondo ne subentrava un’altra. Quando si arriva davanti ad ognuna delle porte di Angkor Tom si vedono allineate ai lati le statue dei Deva e degli Asura. Essi tengono tra le mani il serpente Vasuki e lo tirano come una specie di gioco di tiro alla fune. Il serpente continua (idealmente) all’interno della città, arriva al centro di essa dove sorge il tempio del Bayon (il monte Mandara), vi si avvolge attorno e continua uscendo dalla porta opposta dove è afferrato dagli avversari (Deva o Asura). Dal momento che si tratta di un  tiro alla fune e non di un movimento circolare, secondo la concezione cosmologica indù, ecco l’oscillazione del cielo o zangolatura dell’oceano di latte.

 

2. Angkor: una città scomparsa nella giungla

 

Furono i Francesi che, esplorando i loro nuovi domini asiatici nel secolo XIX, cioè gli odierni Vietnam, Laos e Cambogia, radunati in un unico stato chiamato Cocincina, scoprirono gli straordinari templi dell’antica capitale Khmer abbandonata dai suoi abitanti nel secolo XV a causa delle incursioni dei siamesi (gli attuali thailandesi), abitanti che si trasferirono ad alcune centinaia di chilometri fondando la nuova, e ancora attuale, capitale Phnom Phen. Degli innumerevoli templi della città solo uno era visibile ed officiato: l’Angkor Wat, antico tempio dedicato a Visnhu ed in seguito trasformato in tempio buddista con relativo convento (vat). Tutti gli altri erano spariti in una fittissima giungla, tanto fitta che gli esploratori, pur passando a poche decine di metri non si accorsero neppure della presenza di alcuni di essi. Angkor è un  quadrilatero di 50 chilometri di lato contenente ben 276 monumenti di primaria importanza, una città che, secondo alcuni calcoli, aveva nel XIII secolo un milione di abitanti.

Il primo straniero a scrivere una relazione sulla città fu il cinese Ceu Ta-Kuan giunto ad Angkor nel 1296 al seguito di una delegazione inviata dall’imperatore Qubilai Khan (il medesimo citato da Marco Polo). Egli non riesce a nascondere la sua meraviglia, specialmente davanti all’Angkor Wat che chiama “ la Torre in Pietra” ipotizzandone un’origine divina. Del resto gli stessi Khmer credevano che la città fosse opera non degli uomini ma degli dèi, nonostante che non fossero passati che ottanta anni dalla morte di Jayavarman VII, l’ultimo grande sovrano. Il tanto ammirato Angkor Wat, al momento in cui scriveva Ceu Ta-Khan, aveva poco più di un secolo di vita essendo stato costruito nella seconda metà del secolo XII. Gli europei “scoprirono” Angkor nel XVI secolo, con l’arrivo dei primi missionari in Indocina. Nel 1601 frate Marcello de Ribadeneyra scriveva che in quel regno c’erano “delle rovine di un’antica città di cui certuni dicono che fu costruita da Alessandro Magno oppure dai romani, perché la sua pianta e le sue fortificazioni lo fanno pensare” [7]. C’era anche chi riteneva che la città fosse stata fondata dagli Ebrei che poi emigrarono in Cina; altri che fosse opera di Traiano, sebbene ci fosse qualche dubbio che l’Impero Romano si fosse esteso sino in Cambogia. Alla fine tutti convennero che l’origine di quei monumenti fosse misteriosa, suscitando “un sentimento di stupore e quasi di incredula meraviglia in tutti coloro che erano venuti ad ammirarli” [8]. Quando i Francesi occuparono una parte dell’Indocina, Vietnam, Laos e Cambogia, ilterritorio su cui sorge Angkor era da secoli parte del regno del Siam (l’odierna Thailandia); fu restituito alla Cambogia nel 1907. Già dal 1898 i Francesi avevano costituito la  Ecole Francaise d’Extreme-Orient, ma fu solo col passaggio del territorio dal Siam alla Cambogia che iniziarono le esplorazioni scientifiche dei monumenti Khmer di Angkor. I pericoli maggiori Angkor li passò negli ultimi trent’anni del secolo scorso a causa della lunga guerra civile e gli anni del regime dei Khmer rossi. Forti furono i timori per lo straordinario patrimonio archeologico anche per la feroce furia iconoclasta verso le religioni da parte dei medesimi. Tuttavia i danni furono assai limitati, i templi furono lasciati senza manutenzione ma in genere rispettati (a parte alcuni casi di vandalismo e di furti, ma che riguardano non solo quel periodo). Il fatto è che probabilmente gli stessi dirigenti Khmer subivano il fascino di quei monumenti appartenenti ad un periodo storico della Cambogia a cui essi stessi si riferivano: non per niente nella bandiera della Cambogia di Pol Pot non c’era nessun emblema che ricordasse il comunismo, ma il profilo dell’Angkor Wat, emblema di un regime dove la confusione ideologica raggiunse vertici mai eguagliati, un miscuglio di nazionalismo antivietnamita, maoismo, ammirazione per gli antichi Khmer,buddismo, e un’ orientamento ideologico verso Robespierre e i principi e metodi terroristici della Rivoluzione Francese, il tutto recepito da Pol Pot durante il suo periodo di permanenza, come studente, in Francia.

Nel corso del ’900 gli scavi e il restauro dei templi di Angkor progredirono. Anche alcuni studiosi appassionati di archeoastronomia fecero le proprie considerazioni in proposito. Oltre che all’insieme urbanistico della città furono esaminati alcuni templi tra cui appunto l’Angkor Wat e il vicino Bakheng, quest’ultimo era il centro dell’antica città di Yashodharapura la capitale del regno Khmer prima che fosse costruita Angkor Thom in seguito all’invasione dei Cham (vietnamiti) e la distruzione di Yashodharapura nel 1177 [9].

 

3. Il mare di latte secondo la mitologia indù

 

Lo zangolamento o più esattamente la burrificazione del mare di latte è un mito vedico tratto dai  Purana e narrato anche nel Ramayana e nel Mahabharata. Il Ramayana è un’allegoria sulla lotta tra il bene e il male incentrata sulla figura di Rama che rappresenta il sovrano ideale che lotta contro il cattivo re: il demone Tosakan. Nell’originale indiano è un poema in 24.000 strofe distribuite in sette libri ed è inclusa un’opera ancora più grande, il  Mahabharata, composto da moltissimi autori in un arco di tempo lunghissimo: cinque secoli, dal III secolo a. C. al II d. C. [10]. Il frullamento dell’oceano di latte aveva fatto sgorgare dal medesimo infiniti doni e soprattutto il liquido dell’immortalità, l’ amrita, una versione indiana dell’ambrosia dei greci o della pianta dell’eterna giovinezza di Gilgamesh. “ Il mare di latte era il sesto tra gli oceani della cosmogonia induista e si diceva contenesse tutte le ricchezze dell’universo, il che spiega il suo nome. Il latte infatti, era per le popolazioni seminomadi di pastori come gli ariani indoeuropei la fonte di ogni nutrimento e ricchezza. Il mare di latte del mito era però un vero oceano popolato di pesci e mostri marini e al suo centro fu posto il monte Mandara che Asura e Deva, tirando alternativamente il corpo del serpente Vasuki, facendolo girare vorticosamente (in questo caso oscillare)  per più di mille anni. Il violento moto spezzò il corpo di pesci e mostri marini e fece ribollire le acque per il gran calore che si sprigionava. Nuvole di vapore salirono al cielo e si condensarono in nubi. I Deva tornarono poi a vivere nell’alto dei cieli e gli Asura scesero nuovamente sotto terra. I Deva aprirono le nubi e fecero scendere la pioggia. Gli Asura schiusero i semi e spinsero i germogli fuori del terreno. Nasceva così il riso [11]. L’acqua che scende dal cielo è quindi il vero liquido dell’immortalità, e non del singolo individuo ma di tutto il genere umano, acqua che permette la coltivazione del riso e altre piante.

 

 

 

Il mito poi ci ricorda che la vita è nata dall’acqua (o dal mare) e su questo sono concordi anche i moderni scienziati. E come non vedere nel ribollimento delle acque e nei violenti moti, eventi di tipo geologico e fenomeni naturali di lunga durata? I Deva che se ne stanno in cielo (angeli) e gli Asura che se ne stanno sotto terra (diavoli), personificano una continua lotta tra le forze dalla natura che a volte uccide a volte dona cibo e vita. Ad Angkor l’acqua era tenuta in gran conto. I re khmer fecero costruire grandi bacini per la sua conservazione, e irrigazioni delle coltivazioni. L’abbandono della manutenzione di bacini e canali a causa di invasioni e problemi interni determinò anche la fine della civiltà khmer. Questa è l’interpretazione classica del racconto mitologico; altra cosa invece, come abbiamo già visto, l’interpretazione data dagli archeoastronomi.

 

4. Il Bakheng, Il Monte dei Possenti Antenati e l’astronomia presso i Khmer

 

Il tempio del Bakheng è – come è stato accennato in precedenza – uno dei più antichi della città, posto nel centro della capitale precedente ad Angkor Thom. Anche per esso non mancano le valenze astronomiche. Il tempio, che si trovava al centro di un bacino idrico che misurava 650 metri per 436, venne fatto costruire dal re Yashovarman tra l’895 e il 910 modificando una collina rocciosa che si alzava per 65 metri sulla pianura e trasformandola in un tempio-montagna a cinque terrazze, ed era, come tutti gli altri in origine, un tempio induista. Sicuramente, scriveva Giuseppe D’Acunto “ i Khmer avevano raggiunto attorno all’anno mille buone conoscenze in campo astronomico: il cronista cinese Ciou Thau-Kuan (o Ceu Ta-Kuan) che verso la fine del XIV secolo (in realtà XIII) trascorse un anno ad Angkor, nel suo diario di viaggio afferma che quel paese era ben fornito di uomini che capiscono bene l’astronomia e possono calcolare le eclissi del Sole e della Luna. Da altra fonte apprendiamo che l’astronomia veniva chiamata ad Angkor la scienza sacra ed era tenuta in così alta considerazione che la distruzione di manoscritti e documenti astronomici veniva considerata un crimine punibile con la dannazione eterna [12].

I templi di Angkor furono realizzati dai Khmer cioè dai Cambogiani, ma tutta o grande parte della loro cultura (religione, arte ecc.) proveniva dall’India, così come lo studio dell’astronomia. Già dal VI secolo d.C. i saggi maestri indù erano capaci di elaborare “ lunghi calcoli per la determinazione della grandezza della durata, dell’inizio e della fine di un’eclisse (…) simultaneamente facevano uso di tavole imparate a memoria relative al moto diurno del Sole e della Luna, le quali comportavano parecchie migliaia di numeri. È ovvio che i Khmer avessero assimilato tali conoscenze dalla madrepatria mescolandole con le componenti mistiche e filosofiche tipiche della loro cultura, in cui non si assisteva a nessuna distinzione netta tra astronomia e astrologia [13].

Tornando al Bakheng, esso rappresentava per prima cosa il monte Meru che sorgeva dall’oceano cosmico (per cui il tempio era costruito in un bacino raffigurante l’oceano). Esso includeva, come elemento in più rispetto ad altri templi, un simbolismo magico iniziatico più sottile e complesso. Il numero totale dei prasat (piccoli padiglioni o tempietti) del Bakheng, che simbolicamente sorgono attorno a quello centrale, è di 108 (quarantaquattro alla base, sessanta sui gradoni, quattro sulla sommità).  Tale cifra è il simbolo della totalità dell’universo ed è pure la moltiplicazione di ventisette, i giorni del mese siderale, per quattro, le fasi lunari (luna nuova, luna crescente, luna calante). Inoltre i nomi principali di Shiva e i grani della mala, la corona rosario indiana, sono proprio di centootto (…). Su ognuno dei cinque gradoni della piramide vi sono dodici piccole torri per un totale di sessanta; dodici sono le case dello zodiaco nella tradizione indiana e dodici sono gli animali del ciclo astrologico cinese a cui si ispirarono pure i Khmer. Non solo, il pianeta Giove impiega circa dodici anni (per la precisione 11 anni, 314 giorni, 20 ore e 25 minuti) per ruotare intorno al sole e percorrere tutto lo zodiaco, che invece l’astro attraversa in un anno. Il ciclo di Giove – il Brihaspati dell’astrologia indiana – durava sessant’anni solari, diviso in cinque cicli di dodici anni, ed era utilizzato anche in area Khmer [14].

 Sul monte Meru vivevano le trentatré principali divinità indù e la particolare disposizione

delle torri sul tempio e le loro diverse dimensioni faceva sì che all’osservatore postosi al centro

di ogni lato, cioè in corrispondenza con i punti cardinali, fosse possibile scorgere sempre e solo

trentatré prasat.

 

5. L’Angkor Wat ed il suo orientamento astronomico

 

L’Angkor Wat è la testimonianza più cospicua dell’arte khmer nel XII secolo; la “città santuario” che Suryavarman II (1113 – 1150) fece erigere al centro del suo impero e la cui costruzione si protrasse dal 1122 al 1150, anno della morte del suo fondatore. Il tempio consiste in una serie di cinque recinti non perfettamente rettangolari, ciascuno interno al precedente: i lati brevi sono allineati lungo la direzione nord–sud, mentre gli altri due sono orientati secondo un asse intenzionalmente ruotato di 0,75° a sud–est e a nord–ovest.

In un complesso importante come l’Angkor Wat non potevano mancare simbologie di tipo astronomico. Tre studiosi – Robert Stengel, Fred Grifford e Eleanor Moron – arrivarono alle seguenti conclusioni: il tempio possiede dati calendariali storici mitologici codificati nelle misure, posizioni incorporate per osservazioni lunari e solari, e che il contenuto e la posizione dei suoi bassorilievi sono regolati dal movimento del Sole. In numerosi trattati di architettura indù sono elencate le regole per la corretta orientazione

dei templi. Nell’architettura Khmer il santuario centrale non veniva mai collocato nel preciso centro geometrico dei recinti che lo circondavano. Più di ogni altro doveva presentare una esatta orientazione verso i quattro punti cardinali, di conseguenza esso veniva costruito intorno all’asse verticale condotto dal punto di intersezione delle due linee tracciate sul suolo, indicanti le due direzioni cardinali principali, e ancora, scrive D’Acunto: “ nel tempio di Angkor Wat, il lungo asse est-ovest si dispone perfettamente in linea con il tramonto e l’alba degli equinozi, così che il giorno dell’equinozio di primavera, un osservatore in piedi sul margine meridionale della prima proiezione della strada rialzata (esattamente davanti alla porta di ingresso orientale) può vedere il Sole sorgere direttamente sulla cima della torre centrale del tempio. Tre giorni dopo il Sole si vede sorgere esattamente sulla cima della torre centrale dal centro della strada rialzata, proprio davanti alla porta di ingresso occidentale … Questa precisa osservazione del Sole all’equinozio di primavera è estremamente importante. Questo duplice sistema di osservazione, capace di consentire nell’arco di tre giorni, la contemplazione dello stesso allineamento da due posizioni diverse è il risultato di un raffinato calcolo astronomico che impone uno spostamento intenzionale dell’asse del tempio è15]. Tutto questo per poter fornire ai visitatori un preavviso di tre giorni dell’avvento all’equinozio. Anche nell’Angkor Wat è raffigurata, sul lato meridionale della galleria principale, un bassorilievo che mostra la famosa scena del “ frullamento (o zangolatura) dell’oceano di latte”, racconto mitologico a cui si è fatto riferimento per il singolare simbolismo urbanistico della città, e che pare simboleggi la precessione degli equinozi. Episodio in cui un serpente  naga, chiamato Vasuki, essendo il medesimo avvolto al monte Mandara, una delle quattro cime del monte Meru, la montagna sacra degli indù. Tuttavia, per quanto riguarda il rapporto tra l’astronomia e la città, uno studioso di archeoastronomia, Graham Hancock, ha ipotizzato una straordinaria tesi.

 

   

 

 

 

 

6. La costellazione del Drago e i templi di Angkor

 

Hancock ha dimostrato che esiste una strana correlazione tra una quindicina di templi della città e la costellazione del Drago. C’era però da risolvere il non facile problema dell’individuazione del periodo dell’anno in cui la costellazione assumeva esattamente la posizione zenitale rispetto alla piana di Angkor “

nonché del giorno in cui presentava la stessa orientazione dei templi, non trascurando il fatto che a causa del moto della terra, un gruppo di stelle non rimane fisso sulla volta celeste ma subisce piccoli spostamenti molto lenti, legati al fenomeno della precessione. Poiché il Drago è una costellazione settentrionale, richiede un’osservazione orientata verso il nord: di conseguenza anche i templi di Angkor, per riprodurre sul terreno la disposizione del Drago, dovevano essere osservati guardando verso nord [16]” .

Ma la sorpresa maggiore fu quando, mediante un programma elettronico capace di simulare la posizione di una costellazione su un preciso momento dell’anno, si decise di puntare sull’equinozio di primavera del 1150, data dell’inizio di costruzione del tempio di Angkor Wat. Il risultato fu sorprendente, la costellazione del Drago apparve rovesciata esattamente di 180° riguardo alla sistemazione topografica dei templi. Il risultato della ricerca sulla posizione delle stelle del Drago in rapporto ai templi fu ancora più stupefacente: corrispondevano all’equinozio di primavera del 10.500 a. C. I problemi di interpretazione a questo punto divennero ancora più complicati perché nessuna prova archeologica testimoniava la presenza di insediamenti umani ad Angkor in un’epoca così remota.

Ma l’elemento più sorprendente dell’intera ricerca di Hancock fu che, secondo D’Acunto il richiamo alla costellazione del Drago può essere associato al fatto che questo animale leggendario, assieme al serpente, è il motivo dominante della scultura khmer. “Nella cultura figurativa indù il drago e il serpente sono infatti figure a volte sovrapposte: in termini puramente simbolici, il serpente naga in particolare, con il corpo in pietra e la testa ritta a cappuccio, è presente sotto forma di scultura o di bassorilievo, in quasi tutti i templi di Angkor" [17]..

Hancock formula una serie di ipotesi riguardo al modo in cui i costruttori dei templi posizionarono gli stessi in rapporto alle stelle della costellazione. L’esistenza di una mappa stellare risalente al remoto periodo citato, non sembra verosimile. Anche la seconda ipotesi, cioè che i suddetti templi siano stati costruiti su altri molto più antichi, sembra poco probabile; sono infatti troppi i millenni (e ribadisco millenni e non secoli) che separano l’epoca di costruzione dei templi da quell’epoca così remota. L’ultima ipotesi formulata da Hancock è che i Khmer conoscessero la precessione degli equinozi e che il  frullamento dell’oceano di latte non fosse per loro solo pura mitologia ereditata dalla religione induista ma che fossero effettivamente consapevoli del fenomeno astronomico e, come un mandala della mente, fossero in grado di riportare l’immagine della costellazione ad epoche remotissime. “ Questo evento naturale era stato sicuramente osservato già nel vicino oriente antico, cioè in Egitto, Cina, India e nelle Americhe, le cui popolazioni ne trattavano con competenza tecnica, tanto da definirlo come un fenomeno che… trasforma la volta luminosa della sfera celeste in un vasto e complicato congegno. E come la ruota di un mulino, come una zangola, un gorgo, questa macchina gira all’infinito" [18].

L’oscillazione dell’asse terrestre, che altera la posizione apparente di tutte le stelle, è stata uno dei soggetti privilegiati di un’intera serie di miti giunti sino a noi dalla più remota antichità. Nell’induismo il carattere ciclico della precessione veniva associato al concetto dell’immortalità dell’anima: “lo sforzo compiuto dagli asura e dai deva mentre tirano le spire del serpente Vasuki attorno al perno del monte Mandera, allo scopo di provocare un moto rotatorio nell’oceano, simboleggia proprio la forza dell’universo che coinvolge il pianeta Terra in un vortice ciclico per consentire la transizione da un’epoca astrologica e l’altra" [19].

Angkor, in definitiva, rappresenta al momento attuale delle conoscenze uno dei più evidenti esempi di città realizzata urbanisticamente secondo schemi che tengono conto di antiche tradizioni mitologiche, riconosciute invece da alcuni studiosi come scoperte astronomiche verificatesi in epoche molto più antiche di quanto sino a poco tempo fa si era portati a credere.

 

Note:

1 G. de Santillana, Il mulino di Amleto. Saggio sulla struttura del tempo, Milano Adelphi Edizioni 2006.

2 N. D’Anna, Il gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Roma Edizioni Mediterranee 2006, per Platone, Pitagora, i cicli cosmici e grande anno, pp., 101 – 142.

3 G. De Santillana, Il mulino, cit., pp. 174 – 175.

4 Su Ipparco e Tolomeo: R. Migliavacca, Storia dell’astronomia, Milano Mursia 1976, pp. 67 – 73. altre notizie sui due astronomi in : T. S. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Torino Piccola Biblioteca Einaudi n. 63, 2000

5 G. de Santillana, Il mulino, cit., pp. 175 – 176.

6 Ibidem, p. 176.

7 C. Bussolino, Angkor, un mondo perso nel tempo, Bisenzio (Fi), Casa Editrice Polaris, 2004, p. 39.

8 Ibidem, p. 40.

9 Ibidem, per le vicende dell’invasione, distruzione della città e la ricostruzione ad opera di Jajavarman VII, pp. 86 –96.

10 C. Conio, L’induismo, Milano, Rizzoli Editore 1997, p. 35.

11 C. Busolino, Angkor, cit., p. 164.

12 G. D’Acunto, Il disegno del Cosmo. L’architettura mandalica di Angkor Vat, Padova Libreria Internazionale

Cortina 2004, p. 152.

13 Ibidem, pp. 152 – 153.

14 M. Albanese, Le grandi civiltà del passato. Angkor, Roma Edizioni White Star, Gruppo editoriale l’Espresso, Pioltello (Mi) 2004, pp. 162 – 163.

15 G. D. D’Acunto, Il disegno del cosmo, cit., p. 156.

16 Ibidem, p. 160.

17 Ibidem, p. 161.

18 Ibidem, p. 164.

19 Ibidem, p. 166.

 

(Autore: Giorgio Casanova. L'articolo è una trattazione presentata al XIV Seminario di Archeoastronomia tenutosi a Genova il 24-25 marzo 2012. Si ringraziano Giuseppe Veneziano e l'autore stesso per la gentile concessione).

  • Pubblicato in questo sito il 24/04/2013