GIORNO 6

PORTOVENERE

e il Golfo dei Poeti

(Marisa Uberti)

 

GIORNO 6: Portovenere e il Golfo dei Poeti  Per raggiungere questa favolosa località non esiste un treno diretto da Monterosso né da altre località delle Cinque Terre; d’estate vi sono regolari traghetti o battelli ma in questa stagione invernale no. In macchina meglio evitare perché i parcheggi sono pochi e salati. Dunque? La cosa migliore è andare a La Spezia in treno da Monterosso (o in macchina se la si ha) e poi prendere l’autobus per Portovenere. Il treno impiega dai 20 ai 25’; a La  Spezia ci si deve recare alla fermata dei bus in partenza per la nostra meta[1], muniti di biglietto ovviamente e in mezz’ora di viaggio si giunge a destinazione.

Quando si arriva, un’esclamazione di stupore è irrefrenabile: sembra di essere davanti a un quadro di meravigliosi colori in cui natura, arte e architettura si sono armoniosamente fusi insieme. Non per nulla il suo nome, Portovenere, sembra derivi dalla presenza di un antico tempio dedicato a Venere, dea della bellezza e dell’amore, che tradizionalmente nacque da una conchiglia uscita dal mare. Nel II secolo la troviamo appellata come "Portus Veneri" nell' Itinerarium Maritimum Imperatoris Antonini, e questo fa presupporre le sue antiche origini romane. La rinomata cittadina è posta sulla punta meridionale della penisola che chiude a ovest il Golfo di La Spezia, in posizione privilegiata; di fronte ad essa si trovano le isole Palmaria, Tino e Tinetto. Sulla costa dei fronte, c'è la bella Lerici.

Palmaria (6,5 km di perimetro) è di fronte a noi, sembrava piccola quando la avvistavamo da Punta Mesco (giorno 2), e adesso che è qui davanti la sensazione è completamente diversa! Sono proprio queste piccole terre emerse ad aver prodotto la testimonianza più antica di tracce paleontologiche (pleistoceniche) ed umane (5.000 anni fa) e ad aver ospitato i più arcaici templi cristiani (V sec. d.C.), di cui restano rovine. Non siamo andati sulle isole, anche perché sono parzialmente visitabili. Palmaria è meta di turismo estivo, inoltre una parte è occupata militarmente; da quest’isola (la più grande dell’arcipelago di Portovenere e separata da essa soltanto 2,5 km, tramite uno stretto braccio di mare chiamato le Bocche) veniva cavato il pregiato marmo nero con striature dorate detto portoro. Oggi la cava è abbandonata, insieme ai resti delle abitazioni dei minatori, delle gru e dei paranchi utilizzati all'epoca. Tino, che dista appena 500 m da Palmaria ed è molto più piccola di quest’ultima (2 km di perimetro), è interdetta al pubblico perché è zona militare riservata, con divieto assoluto di attracco a qualsiasi imbarcazione o natante. Dato che sull’isola sorge l’eremo di san Venerio (morto nel 630 d. C.) , patrono della Diocesi di La Spezia, si poteva accedere alla visita della chiesa due soli giorni all’anno (il 13 Settembre, festa del santo, e la domenica successiva), ma sembra che il pericolo di frane non permetta più neanche questo. Sulla tomba di San Venerio sorse un piccolo santuario nel VII secolo e in seguito i benedettini (XI secolo) fondarono un monastero[2], di cui restano ruderi a nord dell’isola. Tra l’altro sono conservate qui, da qualche tempo, alcune reliquie del santo eremita, restituite all’isola del Tino dopo la loro conservazione a Reggio Emilia[3]. Tinetto è la più piccola delle tre isole ed è la più meridionale; è considerata poco più di uno scoglio privo di vegetazione arborea, tuttavia nella parte occidentale sono emersi i ruderi di un oratorio paleocristiano del VI secolo d.C. e in quella orientale le vestigia di un monumento più complesso, una chiesa a due navate con celle monastiche, risalente all’XI secolo. Questi edifici furono probabilmente distrutti dalle incursioni saracene. L’isoletta è accessibile e ci si può arrivare anche con natanti privati (così sembra, ma informarsi sempre prima di programmare un’escursione in loco).

Portovenere e le sue isole, come le Cinque Terre, è stata inserita dall’UNESCO nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità; il suo territorio è protetto dal Parco Naturale Regionale di Portovenere.

Un piccolo scoglio con una torre, in mezzo al mare, attira la nostra attenzione, mentre scrutiamo il paesaggio: si tratta della Torre Scola (o di S. Giovanni Battista), costruita dai Genovesi tra il 1500 e il 1600 per consolidare il sistema difensivo del Golfo, trasformò le proprie torri quadrangolari in quelle a pianta poligonale o circolare, dotandole di armi da fuoco. Sullo scoglio dinnanzi ala punta di Palmaria, sul versante rivolto a Lerici, venne quindi edificata questa torre a pianta pentagonale regolare, destinata a coprire quelle “zone morte”, sguarnite di adeguata difesa. Si era nei primi anni del XVII secolo e la realizzazione del fortino piacque alla popolazione; non si era scordata infatti la terribile incursione saracena del 1545, ma anche quelle di Pisani e Aragonesi. La Torre era dotata di 10 cannoni e vi stazionavano sei soldati, un capo e un bombardero. Purtroppo la torre, che sopravvisse fino al XIX secolo, venne parzialmente sventrata da cannonate inglesi nel tentativo di scacciarvi i francesi; riparata, a metà di quel secolo venne abbandonata e nel 1915 rischiò l’abbattimento totale. Fu salvata per l’intervento del Ministero della Pubblica Istruzione, per intercessione dell’Ispettore ai Monumenti Ubaldo Mazzini. Alla base della torre vi sono numerose cannonate lasciate non da parti nemiche ma dall’artiglieria italiana, che l’ha usata come bersaglio per le esercitazioni in tempi imprecisati (ma non è l’unico caso). Nemmeno da commentare!

Ci incamminiamo verso l’ingresso al borgo, e ne ammiriamo le tre torri che svettano sulla collina, dalla forma diversa e appartenenti al sistema di fortificazioni di cui era stata munita l’area. L’entrata al centro storico è delimitata da un’antica porta medievale, aperta nelle mura nel 1160. Al di sopra del fornice vi è lo stemma con le tre torri e un cartiglio sul quale è scritto “COLONIA IANVENSIS AN. 1113”. In basso e a sinistra della porta, si può vedere una “misura di capacità” per vino e granaglie[4] del 1606, mentre altissima si eleva la Torre Capitolare. L’atmosfera che si respira lungo il Carruggio principale (Via Cappellini) è serena, tra negozi che espongono i loro prodotti locali e ristorantini tipici, la gente sempre abbondante nonostante la stagione e la nostra consapevolezza di trovarci in un posto speciale.

La caratteristica delle case dislocate lungo questo carruggio è che hanno due ingressi: uno rivolto al mare (ingresso basso sulla spiaggia per le barche) e uno alto dalla strada per entrare nell’abitazione. Ogni piano ha tre locali, di cui quello in mezzo non ha finestre. Ogni casa era fatta così e ciò serviva a formare un muro (essendo le case contigue) perfettamente integrato nel sistema difensivo. Nessuna strada divideva le case, tuttavia- ogni tanto- si trovano delle strette scalinate; osservando meglio notiamo che recano rispettivamente scritto: “SCALA I CAPITOLO” e “SCALA II CAPITOLO” (e ci saranno pure i successivi…), sono sottoportici costituiti da ripide scalette che collegano Via Capellini al porto o alla spiaggia. Curioso!

Ma ecco che incontriamo una piazzetta con al centro una fontana deliziosa, sullo sfondo della quale si stagliano resti di mura antiche. Entriamo in un breve tunnel coperto e prima ancora di terminarlo ci appare l’estatica, incommensurabile visione del complesso di San Pietro, circondato da fortificazioni. La giornata splendida, consente di apprezzare in ogni sfumatura i colori: l’azzurro del cielo che insieme al mare avvolge la spianata su tre lati, il bruno dello sperone roccioso su cui è accomodata la bellissima chiesa, l’oro del sole che si riflette nei nostri occhi, già abbagliati da così tanta meraviglia!

Ripresi dallo stupore, dobbiamo pur cominciare da qualche parte a muoverci ma è difficile decidere dove! A sinistra, lungo la merlatura per ammirare la vicinissima Palmaria e uno scorcio fantastico? Diritti verso il monumento, di cui subiamo irresistibilmente il fascino? O a destra, in mezzo alla scogliera, dove si scende per la Grotta di Bayron? Visto che c’è un po’ di gente all’ingresso della chiesa, scegiamo di lasciarla un po' sfumare e optiamo per la terza ipotesi, che trasformiamo concretamente. Un varco nelle mura permette di accedere ad un mondo turbinoso e misterioso; il vento sembra alzarsi proprio adesso che stiamo scendendo sugli scogli, e vi fa urtare violentemente le onde che con fragore si infrangono, schiumose e vitali. Tra poco potremmo veder uscire la dea Venere…!

 

Un paesaggio proprio adatto ai Poeti, com’è chiamato questo Golfo, e agli artisti: evocativo, ispirante, irrequieto ed infinito. Ci attacchiamo alla balaustra, gli scogli a picco sono fradici di acqua salmastra che il mare gli butta e ributta incessantemente addosso. E c'è molto vento. Percorriamo pochi metri e c’è lo stop, oltre non è permesso andare. Vediamo l’ingresso alla famosa Grotta Arpaia, dove la leggenda dice che il grande poeta Bayron – ardito nuotatore- sfidò le onde a nuoto per raggiungere Lerici, dove soggiornava il suo amico Schiller con la moglie. Nove chilometri a nuoto in quel mare che amava tanto e che gli diede ispirazioni.
Torniamo sui nostri passi e ci dirigiamo verso la scalinata che raccorda la spianata alla chiesa di S. Pietro, dallo stile particolarmente interessante perché sostanzialmente formata da due edifici fusi insieme, uno più antico (paleocristiano del VI secolo d. C.[5]) e uno più tardo (XII secolo). Il primo edificio è a pianta rettangolare terminante in un abside semicircolare orientata a Est; sul pavimento sono visibili dei lacerti musivi, che gli scavi hanno rimesso in luce, tra cui una scacchiera a 8 caselle bianche e rosse.  Nell’abside è collocata una bella statua bronzea di S. Pietro. Due arcate a tutto sesto aperte nella muratura del vecchio edificio, collegano quest’ultimo a quello del XIII secolo, senza soluzione di continuità. La chiesa medievale (1256-1277) ha un’abside quadrata orientata a Sud; l’interno è intimo, con magnifica visuale sul mare. Fasce bianche e nere arricchiscono il paramento murario e le volte ogivali delle due cappelle laterali del presbiterio. Il campanile è la ciliegina sulla torta di questo stupendo edificio di culto; presenta ordini sovrapposti di bifore che ne alleggeriscono la mole. Forse, il primo edificio cristiano sorse su un precedente tempio pagano dedicato a Venere? Sarebbe interessante scoprirlo…

Eugenio Montale, molto legato a queste terre come già detto, scrisse una poesia intitolata Portovenere, in cui il “cristiano tempio” è proprio questa chiesa. Leggiamola insieme:

 

“Là fuoriesce il tritone

dai flutti che lambiscono

le soglie d’un cristiano

tempio, ed ogni ora prossima

è antica. Ogni dubbiezza

si conduce per mano

come  una fanciulletta amica.

Là non è che si guardi

o stia di sé in ascolto.

Quivi sei alle origini

e decidere è stolto:

ripartirai più tardi per assumere

un volto”

 

Faticosamente ci stacchiamo da questo luogo indescrivibile e incontriamo, seduta su una roccia, la statua della Mater Naturae, omaggio a Portovenere dello scultore Scorzelli.

Saliamo verso la chiesa di San Lorenzo, eretta nel XII secolo in stile romanico[6], di cui rimangono tracce nella facciata. Bellissimo anche da questa spianata il panorama sul mare! Al pari della cattedrale di Genova, i Genovesi (divenuti possessori di Portovenere nel 1116) vollero costruire qui una chiesa parimenti bella e dedicata a questo santo. Opera della Scuola Antelamica, fu consacrata nel 1130 da papa Innocenzo II.

Lasciamo al lettore curioso di perlustrare i blocchi della facciata e le lunette, dove è presente un simbolo particolarmente interessante (terzo portale).

Internamente è venerato un quadro di piccole dimensioni, ma dal grande valore simbolico: la Madonna Bianca, oggetto di culto per i portoveneresi. E’ incastonato nel bell’altare quattrocentesco in fondo alla navata destra ed ha una leggenda misteriosa che la contorna.

Correva l’anno 1204 quando l’icona giunse a Portovenere dal mare, accuratamente custodita dentro un tronco d’albero scavato e sigillato. Insieme al dipinto vi erano anche dei reliquiari e quattro cofanetti istoriati secondo gli stilemi dell’arte persiana dell’XI secolo[7], oltre ad un ingente tesoro[8]. Quel vetusto legno è ancora oggi conservato nella navata sinistra della chiesa. Da dove provenivano tutti quegli oggetti preziosi? Forse dalla Palestina o da Costantinopoli, messi in salvo dai Crociati e trasportati via mare e giunti fino a qui, oppure perduti da un carico in seguito ad un assalto piratesco o naufragio? Questo è ancora avvolto nel mistero. Il dipinto sarebbe stato apposto su una casa del borgo e oggetto di venerazione. Il 17 agosto del 1399 un uomo di nome Lucciardo, imperversando la peste[9], chiese alla Madonna Bianca di intercedere affinché la città venisse risparmiata dal morbo. L’icona, fino a quel momento smunta nei colori, si illuminò risplendendo con colori molto vivi e comparve il Bambino, in braccio alla Vergine, che prima non si vedeva. Lucciardo corse a chiamare i compaesani, che accorsero e in più di 600 testimoniarono il prodigio. L’epidemia cessò e il dipinto fu portato nella chiesa di San Lorenzo, dando inizio ad un culto ininterrotto verso la Madonna Bianca, che divenne la patrona della Comunità.

Nella navata sinistra, come accennato, si trova ancora oggi il tronco di cedro del Libano con l'incavo dove furono ritrovate le reliquie, l'icona mariana e un l'ingente tesoro.

Internamente sono pure da ammirare alcune opere d'arte, tra le quali spicca un'acqusantiera ricavata da un ambone medievale.

Salendo ancora più in alto si giunge al Castello Doria, dominante Portovenere da un costone roccioso a strapiombo sul mare. Il fortilizio venne edificato dai Genovesi tra il XII e il XV secolo, ma nel corso del tempo venne modificato tanto esternamente quanto internamente, a seconda delle necessità difensive e dall’introduzione di nuove tecniche belliche. Francesco Tetrarca ebbe a dite, nel 1338, vedendo l’assetto urbanistico di Portovenere, che perfino Minerva abbia scordato la sua Atene, vedendo tanta dolcezza e bellezza. Il 1400 fu un secolo che mise a dura prova la città, tra incendi e incursioni degli Aragonesi[10]. La sua posizione strategica faceva gola a molti, perché oltre ad avere funzioni di avvistamento e difesa, permetteva di controllare i traffici marittimi. L’intitolazione ad Andrea Doria deriva dal contributo che egli dette alla realizzazione di modifiche per adeguare il maniero alle nuove esigenze difensive; fu lui che nel 1606 fece costruire anche la Torre Scola. In epoca napoleonica fu creata una strada che collegava direttamente Portovenere a La Spezia, ma non ne rimane traccia. In quell’epoca il fortilizio fu adibito a prigione politica. Oggi nelle sale del castello sono ospitate mostre d’arte, convegni e manifestazioni culturali.

Staremmo a Portovenere ancora a lungo ma è giunto il momento di tornare  a La Spezia, da dove riprenderemo il treno per Monterosso.

Domani è il settimo giorno, la partenza! Ma prima di andare via, faremo due passi a La Spezia. Accompagnateci anche voi...

 

 

GIORNO 1: Monterosso e Fegina

GIORNO 2: Escursione ai ruderi dell'Eremo di S. Antonio del Mesco e al Santuario di Nostra Signora di Soviore

GIORNO 3: apprezziamo la cucina locale

GIORNO 4: Vernazza

GIORNO 5: Manarola e Riomaggiore

GIORNO 6: Portovenere

GIORNO 7: La Spezia

 

 

SPECIALE CINQUE TERRE

 

 

 


[1] Partono da Via Chiodo (500 m dalla Stazione FS); i biglietti si acquistano in tabaccheria o all’edicola

[2] Dopo i Benedettini arrivarono altri monaci, che eressero un convento, nei cui locali è attualmente allestito un Museo Archeologico, che si può visitare solo in occasione della festa di San Venerio

[3] Nella chiesa abbaziale benedettina di San Prospero extra-moenia, oggi distrutta. Il corpo sarebbe ancora conservato nella chiesa cittadina dei SS. Pietro e Prospero, mentre all’isola spezzina è stato restituito il teschio, riposto in un reliquiario a parte, attualmente conservato nella cripta della cattedrale di Cristo Re a La Spezia

[4] Per determinare il dazio da pagare

[5] Si dice fosse in stile cosiddetto “siriano”

[6] Forse su un tempio dedicato a Giove

[7] Fonte: pannello in loco

[8] Nel 1644 il cardinale Durazzo stilò un elenco completo del contenuto della trave, conservato nella Chiesa

[9] Durante l’occupazione francese

[10] La battaglia del 1490 durò sette ore e gli Aragonesi vennero sconfitti, ma il borgo e le sue chiese furono pesantemente danneggiati