Il Cristo di Oriolo (CS)

                                                                        (Andrea Tigli)

 

Percorrendo la s.s. 106 che segue la costiera jonica da Taranto verso Reggio Calabria, poco dopo aver superato il confine fra Basilicata e Calabria si incontra sulla destra una deviazione che conduce ad Oriolo, un paesino un po’ ritirato nell’interno come lo sono tutti i più antichi insediamenti autoctoni. La prima volta che notai l’indicazione mi venne in mente quando da ragazzi ci canzonavamo per i rispettivi orologi (allora tutti meccanici) denigrandoceli vicendevolmente perché alimentati “a carburo”, caratteristica che non ci autorizzava a chiamarli in tal modo, ma orioli, appunto. Quindi è stata più una spinta venuta dalla curiosità e dalla celia che da un interesse particolare a farmi dirigere verso questa cittadina.

Mai avevo avuto occasione di averne notizia prima, ma subito appena conclusa la visita al castello ed alle strette stradine dell’antico borgo murato, alle sue chiese ed ovviamente alla Chiesa Madre (queste ultime tutte “convenientemente” barocchizzate), mi fu facile intuire come l’abitato avesse occupato in epoca medioevale una posizione non marginale nel transito da e per la Terra Santa. Di conseguenza la chiesa locale ebbe sicuramente la possibilità di gestire un flusso di denaro relativamente vivace, derivatole dalla decima sui fedeli, che le permise anche l’acquisto di preziose reliquie, come i resti del cranio di s. Francesco di Paola comprovano. Era un tempo, quello delle Crociate, a cui risale la devozione al santo, in cui questo mercato era assai fiorente e prosperoso, e soprattutto tanto più era oneroso l’investimento iniziale quanto più si sarebbe rivelato remunerativo quello in prospettiva: è facilmente intuibile come, disponendo delle reliquie di un santo o più famoso o maggiormente venerato, o meglio ancora del Cristo o della Madonna, più numerosi sarebbero stati i pellegrini attratti e più cospicue le offerte ed i guadagni connessi all’ospitalità, alla vendita dei prodotti locali, ai souvenirs.

Mutatis mutandi è ciò che accade ancor oggi in molti luoghi.

Assorto nei miei pensieri e nelle mie valutazioni, percorrevo così la strada in leggera salita che conduce all’uscita dal borgo, quando la mia attenzione fu attratta dalla facciata della Chiesa Madre o meglio da qualcosa incastonato nel bel mezzo della sua gialla scialbatura: un bassorilievo medioevale raffigurante Cristo crocifisso contornato da sole e luna e con ai piedi due monaci.

 

Dal punto di osservazione in cui ero non riuscivo a discernere perfettamente i particolari né le figure, ma ci fu qualcosa che mi attrasse spingendomi a fotografarlo e facendomi ripromettere di approfondire le ricerche. La mia meraviglia quando, osservando in seguito la foto ingrandita, notai che il Cristo, pur palesando nell’immediato la rassicurante idea convenzionale con la canonica postura ed i tre chiodi ben visibili, risultava contemporaneamente appeso a niente: l’unico tratto che poteva attestare la presenza di una croce era forse ravvisabile nel finale di quelli che dovrebbero esserne i bracci, ma solamente nella parte inferiore poiché superiormente vi si delinea distintamente il contorno delle ali più alte. Non certo nei piedi sovrapposti ad un teschio e ancor meno nelle altre due coppie di ali che, unitamente a quella citata, danno la netta sensazione di sostenerlo mentre si libra nell’aria.

 

La croce ed il teschio sono le differenze, lievi seppur significative, con l’affresco del senese Ambrogio Lorenzetti (foto sopra) in Assisi identico nel gesto, nei soggetti e plausibilmente nel messaggio proposto, pur se espresso con un po’ più di cautela e prudenza.

Cominciai quindi la mia ricerca dal sito ufficiale del Comune di Oriolo ove si legge:

“La Chiesa Madre di Oriolo, dedicata a S.Giorgio M., è inserita nella struttura urbanistica del centro storico e, insieme al castello medievale (XI sec.), è catalogata fra i monumenti nazionali dal Ministero dei Beni Culturali. I leoni posti a guardia della porta centrale sono del 1264, per come indicato dal prof. Bonelli della Università di Roma. Il primo impianto dovrebbe risalire, quindi, al periodo normanno-svevo, quando si impose alle popolazioni e al clero di rito latino. (omissis)

Non si possono tralasciare altre due opere: la Madonna del Gaggini, datata 1581, e il bassorilievo con la visione di S. Francesco d'Assisi del 1400 sulla facciata principale. Di quest'opera meraviglia la fedeltà all'agiografia di Tommaso da Celano che fu il primo biografo del "poverello d'Assisi". Il bassorilievo ci presenta il Cristo con quattro ali, poggiante sul teschio di Adamo, che dà le stimmate a S. Francesco, mentre frate Leone sorregge il libro della Regola francescana.”

Precise quasi tutte le affermazioni ivi riportate compresa quella acuta che accenna al “teschio di Adamo” e non al Golgota come l’accezione comune ci manifesta. Quale la differenza? Diciamo che con il monte del martirio ci si attiene rigorosamente all’ortodossia ecclesiale romana; con il teschio di Adamo si va ad intrecciare la visione eretica, o comunque borderline, inerente la ricerca del Sangraal per cui la croce, costruita con il legno dello stesso albero del bene e del male del paradiso terrestre, venne eretta esattamente sulla tomba di Adamo. La differenza fra le due visioni può apparire esile ad un approccio superficiale, ma è sostanziale in quanto il Graal è in origine un oggetto pagano, o comunque il simbolo di una religiosità ancor più universale di quella cattolica espressa dal motto druidico “un dio, una idea, un popolo”, che va ad incunearsi nella tradizione cristiana volendo salvaguardare la propria originaria sacralità. Questo il motivo per cui alla concezione celtica tradizionale insita nel Sangraal di Chretién de Troyes o Wolfram von Eschembach, si replicherà con quella molto più conforme di Geoffrey di Monmouth o Robert de Boron.

Vediamo come queste astuzie possano trovare un’eco anche nella disquisizione sul manufatto.

Non assoggettandoci all’ovvio, o per meglio dire alle superstizioni che obbligano a vedere solo ciò che altri hanno deciso per noi, potremmo ipotizzare che l’effigie del Cristo venga così proposta per manifestare al di sopra di ogni dubbio la certezza nella sua natura sovrumana, ma è l’inconsueta se non proprio inusitata metodologia a destar meraviglia. Se da una parte ne proclama i requisiti propri della divinità con gli astri che lo attorniano e le stimmate che elargisce, dall’altra si contrappone un’interpretazione stridente vuoi per la mancanza dello strumento di tortura che per la presenza delle atipiche tre coppie di ali, di cui una va a coprire il pube sostituendosi al canonico panno. Perplessità che non si attenuano se consideriamo che tale figura può essere equiparata più che alla visione formale del Cristo tramandataci dalla chiesa, ad un Serafino cioè a un asessuato angelo (questo il messaggio palesato dalla coppia di ali inferiori?).

Chi sono i Serafini: “Sono una figura che troviamo già nell’Antico Testamento e che definisce una categoria di angeli. Sarebbero spiriti forniti di tre paia di ali che proclamano la gloria di Dio intorno al suo trono (Isaia VI 2), una specie di serpenti volanti (Numeri XXI 6). Nella teologia cristiana rappresentano il più elevato dei nove cori angelici.

 

In Iraq, a Tell Halaf, è stato rinvenuto un bassorilievo del 1000 a.C. ca., che richiama dettagliatamente la descrizione di Isaia.” (www.ecros.it)

 

Porciatti ci ricorda anche: “È   interessante ricordare che in ebraico alla parola serpente corrisponde Saraph, il cui plurale è Seraphin da cui il termine di Serafino che ha il significato a tutti noto; per la precisione è bene chiarire che i Seraphin nel senso biblico sono i “Serpenti alati”, i “Volanti Serpenti di Fuoco” (Numeri XXI 6,8; Isaia XXX 6)che vi ha ragione di ravvicinare e confondere con i cocenti raggi del sole, cioè con l’emanazione del Sole, espressione della potenza Suprema.”

È innegabile che questa descrizione mal si adatta ad un componente della Trinità, perché in definitiva dequalifica un Dio in un esponente di una cerchia angelica preposta a divulgarne la gloria.

Ci spingeremmo forse troppo oltre avanzando l’ipotesi che la mano dell’autore, pur nel riaffermare la sovrumanità dell’essere, ne abbia voluto confutare la divinità? Lasciamo per ora in sospeso il giudizio e continuiamo a decrittarne gli eventuali altri messaggi.

Un Cristo dicevamo non posto in croce, qualità che riscontriamo anche in quelli incisi dai Templari a Domme o nel piedritto dell’altar maggiore della Magione dell’antico insediamento in Siena, ma raffigurato in maniera del tutto dissimile da come lo è nell’ortodossia cattolica laddove il Crocifisso è interscambiabile con la croce, ma non con il suo solo corpo. Un Cristo allora che apre le proprie braccia non perché forzato dallo strumento di morte, bensì perché venuto ad accogliervi tutta l’umanità: ma questa interpretazione è emblematica dell’eresia catara in cui l’Eone, messaggero fra Dio e le sue creature identificabile come sovrumano ma non divino, è ritratto estatico e non sofferente, in gloria e non prostrato, perché non essendosi mai umanizzato non poteva essere né martirizzato né ucciso e né tantomeno risorgere.

Passando ad analizzare il motivo della raffigurazione di Francesco e la sua regola, inoppugnabilmente palesati entrambi, scaturiscono altri interrogativi. Iniziamo col ricordare le indubbie affinità esistenti fra l’originario messaggio francescano e l’eresia catara accomunate inoltre dall’essere ormai state, nel XV secolo, “ricondotte” nel conformismo romano da un paio di secoli, l’una con macchinazioni cortigiane e l’altra addirittura con una crociata. Le due teologie avevano sostenuto e propalato il messaggio evangelico del rapporto senza intermediazioni fra Dio e le sue creature, della povertà, della generosità e dell’umiltà con la sola differenza che Francesco, più illuminato o più politico o forse solo perché più calato nella realtà italiana, ebbe l’accortezza di non porsi in antitesi con il clero ed il papato, ma ne cercò l’assenso ed il coinvolgimento ed al contrario di catari, patarini, valdesi ed altri propose la via della conciliazione e del mutamento consenziente.

Ma perché Giovanni Bernardone, alias san Francesco, intraprese questa lotta titanica?

Al di là di tutta la biografia e l’agiografia conosciute, non va dimenticato che il figlio di Pietro e della nobile provenzale Pica Bourlemont ha in Francesco, nome adottato solo da adulto, una chiara liaison con le origini della madre natia della Linguadoca. In questa regione, dove il padre intratteneva lucrosi commerci, l’eresia catara ebbe la sua massima espansione e di concerto la posizione femminile arrivò a godere di un ruolo impensabile altrove e con ben poche analogie nella storia umana. Ivi la donna aveva una sua dignità e, senza vincoli con la parentela maschile, poteva possedere e gestire beni; era pure chiamata alla predicazione ed alla somministrazione del “sacramentum”, ergo godeva di voce in capitolo su, quasi, tutto.

Ricordando che l’unico testo sacro cui i Catari facessero riferimento era il Vangelo di Giovanni, è legittimo immaginare che l’influenza della cultura materna nella formazione del “nostro” Giovanni sia stata decisiva per le scelte future, come il conseguente cambiamento di nome lascia supporre.

Quello che è assolutamente percepibile sia nel bassorilievo che soprattutto nell’affresco, laddove la postura lorenzettiana di Francesco, un misto fra incredulità e sconcerto, denota lo sbalordimento davanti alla manifestazione di un Cristo con le ali, è lo stridente contrasto col disinteresse di frate Leone verso i miracolosi accadimenti. Emarginato anche fisicamente, egli è completamente immerso nella lettura delle regole volgendo in tal modo lo sguardo verso il basso, verso le cose terrene, al contrario di Francesco che lo innalza verso quel cielo da cui riceve le stimmate, cioè il consenso. Un frate alle cui spalle incombe sempre una basilica.

Cercando per quanto possibile di razionalizzare, proviamo ad azzardare un’ipotesi per cui secoli fa erano previsti tortura e rogo. Iniziamo col riannodare le fila partendo dalle certezze: la presenza dell’Ordine Templare in tutta quella parte meridionale d’Italia che guardava ad est ed alla Terra Santa, così come nella ricordata Magione di Siena; ancor più in Linguadoca, con una presenza inspiegabilmente imponente, dove le contaminazioni tra la fede catara ed i Templari verranno comprovate dai verbali delle testimonianze nei processi. Testimonianze che riporteranno pure l’istigazione rivolta al candidato di sputare e compiere altre oscenità su una croce stesa per terra fin dalla sua iniziazione. Un Ordine le cui idee ed i cui segreti non si dissolveranno neppure dopo le persecuzioni e lo scioglimento, riconvertendosi in modo più o meno manifesto in altri Ordini e correnti filosofiche e letterarie che ne trasmetteranno lo spirito, dove non proprio la lettera. Quale il motivo della blasfemia sulla croce? Perché con tale atto si rifiutava la doppia natura umana e divina di Gesù Cristo a favore della visione eretica per cui una cosa è l’Eone inviato di Dio, quindi il vero Cristo latore del messaggio divino, altro è Gesù, un Rabbi profeta e taumaturgo della tribù di Giuda discendente da Davide e Salomone (Matteo I 1). Qui finiscono le certezze ed iniziano le ipotesi.

Secondo la Legge, ancor oggi in vigore, Yheoshua fatalmente per poter essere legittimato Rabbi doveva contrarre matrimonio e generare prole: ecco il ruolo di Maria Maddalena che molti individuano come una sacerdotessa appartenente alla tribù di Beniamino. Nozze con una rilevantissima valenza politica giacché avrebbero riunito contro l’occupazione romana tutte le tribù della nazione ebraica, inclusa quella che aveva originato la prima diaspora a seguito dell’avvicendamento, o usurpazione, sul trono israelita fra Saul e Davide (I e II Libro di Samuele). Diaspora che aveva condotto i beniamiti nell’odierna Provenza dove “secondo le leggende germaniche i figli di Beniamino altri non sono che i Franchi. Con la teoria eretica si dava contemporaneamente anche una risposta alla cruciale domanda sulla natura (umana o divina?) di eventuali figli, domanda che la chiesa cattolica ingessata nei suoi dogmi non può neppure porsi.

È ovvio altresì che tutto quanto fin qui esposto può generare perplessità dove non proprio scetticismo, ma in ogni caso, e di ciò se ne fa garante la Chiesa cattolica locale, è a Saintes Maries de la Mér sulle coste provenzali che approdò la barca ivi pilotata dalla Provvidenza con a bordo le tre Marie (Maddalena, Jacopa e Salomé) e Sarah l’Egiziaca, della quale si conserva nell’ipogeo della chiesa la statua adorata dal popolo zingaro. Costei, possibile frutto dell’unione coniugale fra Gesù e la Maddalena, avrebbe poi contratto matrimonio con la stirpe dei Franchi dando origine a quella dinastia reale merovingia da cui sarebbero scaturite nei secoli tutte le aristocrazie europee, il famoso sangue blu.

La variabile in cui al Rabbi Yehoshua è attribuita una figlia piuttosto che un maschio sarebbe a mio avviso da ritenere la più verosimile, considerando come ancor oggi l’appartenenza al popolo ebraico sia trasmessa solo e soltanto per via femminile.

Per accertare la plausibilità che queste teorie avessero veramente permeato l’Ordine Templare ed i suoi epigoni, è lecito chiedersi dove sia mai possibile reperire delle prove o quantomeno ulteriori probanti indizi. Domanda di non facile risposta, anche se nell’affresco attribuito a mano templare della Cripta del Crocifisso ad Ugento (LE) raffigurante la Madonna Olosoma con infante, ritengo che sia possibile rintracciarle.

Vale la pena comunque soffermarsi un attimo a riflettere sull’ipotesi che l’impegno profuso per secoli da artisti immensi e celeberrimi, così come da semplici artigiani sconosciuti, di voler trasmettere qualcosa di disarmonico con la comune storiografia velandola sotto allusioni o immaginifiche opere, possa essere veritiera. Se ciò fosse, sarebbe stata una stringente necessità il dover ricorrere a questo espediente e non la determinazione di proporre un rebus o un esercizio per menti un po’ stravaganti o dedite a titillamenti auto-gratificanti. Quindi il razionale motivo per cui questi eruditi avrebbero riempito le loro opere di palesi incongruenze con l’ortodossia cattolica non sarebbe stato quello di trasmettere uno stolto messaggio alla posterità, rischiando oltretutto di aver improvvisamente a che fare con francescani e domenicani furibondi, ma l’esigenza di affidarne il ricordo a canali esoterici confinati ad una élite.

Lo stesso motivo per cui Galileo fu costretto a ritrattare a favore della credenza religiosa  allora imperante una realtà da sempre nota ad astrologi e sapienti, come la condanna di due millenni prima comminata ad Anassagora per empietà dalle autorità civili e religiose greche conferma. In quel caso il non trascurabile problema era di far accettare all’umanità coeva il ribaltamento completo del concetto di realtà allora dominante e cioè che il sole sta fermo mentre questa sfera chiamata Terra e tutti gli altri pianeti gli ruotano intorno sospesi nel nulla. Ed anche spiegare a quei “concreti uomini con i piedi ben piantati per terra” e “senza la testa fra le nuvole”, come vi stessero appesi con i piedi all’insù senza precipitare nel cielo.

L’escamotage ci è più chiaro analizzando il motto racchiuso in una terzina di Dante poeta con le prerogative di terziaro Templare, Fedele d’Amore, trovator cortese, sufista, ecc., che conserva ancor oggi la sua validità:

 

Di te dirai colei

Di lei colui

Così convien cambiar

Le pere a pome

a cui aggiungerà (Inferno, IX, 61-63):

O voi, che avete gl’intelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto il velame delli versi strani!

 

La difficoltà di far digerire ad un popolo ignorante e superstizioso, soggiogato dalla capziosità e dalla violenza del clero, il messaggio ravvisabile nel bassorilievo per cui il Cristo sarebbe un soggetto diverso da Gesù, è oltremodo comprensibile. Neanche oggi è argomento semplice da accogliere, ma vivaddio ne possiamo discutere senza paura per la nostra incolumità.

Un’ affermazione quindi contenente un deflagrante stravolgimento di credenze e certezze, oltretutto assai fastidiosa per chi vantava il più stretto contatto con la Divinità e con il potere che da esso ne derivava e che per millenni aveva alimentato l’idea che un popolo barbaro e crudele, gli Ebrei, avesse addirittura perpetrato un deicidio.

Concludiamo, cosa che assai raramente viene fatta, con le motivazioni che spinsero ad agire in tal modo le autorità del popolo ebreo: facendo crocifiggere Gesù avevano reso innocuo un loro connazionale piantagrane che, vantando una discendenza dall’antica dinastia, tentava di sovvertire l’ordine costituito in funzione antiromana, volendosi sostituire ad Erode sul trono di Gerusalemme. Così facendo avevano salvaguardato dalla reazione di Roma sia il popolo che le città di Israele, oltre ovviamente ai loro privilegi.

 

                

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

(Autore: Andrea Tigli)-Pubblicato in settembre 2013

Argomento: il Cristo di Oriolo

Tutto mirabile

Davide | 05.08.2014

Più guardo e sfoglio questo sito, più mi meraviglio di quanta ricerca v'è dentro. Grazie all'infinito, altro che goccia nel mare!

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