Le Arche aragonesi in S. Domenico Maggiore:

una rara ed eccezionale collezione di sepolture

non prive di misteri

(Marisa Uberti)

 

  • Il complesso di S. Domenico Maggiore

Il complesso monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli è situato in un’area tra il Decumano Maggiore e quello Inferiore, nel centro storico della città antica. Qui sorgeva infatti Neapolis e abbiamo già visto, parlando dell’obelisco svettante in piazza San Domenico, i segreti che vi si celano al di sotto. Certamente anche la chiesa basilicale nasconde nelle fondamenta rimembranze greco-romane. Non entreremo dalla parte absidale ma dall’ingresso sulla facciata settentrionale. Dobbiamo dire che un ingresso esiste, proprio nell’abside, ma è chiuso; un secondo ingresso è posto più in basso, a livello della piazza, sovrastato da un balcone quattrocentesco recante stemmi dei Carafa, che introduce nel cosiddetto succorpo o Cappella Guevara di Bovino.

Più a sinistra si trova la scala voluta da re Alfonso I di Napoli, che immette nella chiesa di San Michele Arcangelo a Morfisa, collegata internamente al transetto destro della Basilica (di fatto, ne è una Cappella). Questa chiesa risale al 721 d.C. in epoca longobarda; fu gestita, poi, dai monaci Basiliani e successivamente  dai Benedettini; dal 1231 passò ai Domenicani. Ma adesso dirigiamoci in vico San Domenico, per raggiungere la facciata rivolta a nord. Per farlo, trovandoci in piazza San Domenico e dall'Obelisco, riprendiamo Via Francesco de Sanctis, ripassiamo davanti a Palazzo e Cappella Sansevero del principe Raimondo di Sangro e imbocchiamo vico S. Domenico. Entro una cancellata si trova la chiesa, quasi nascosta alla vista, preceduta da un cortile.

Le forme odierne sono alquanto diverse da quelle originarie: l’edificio risale al regno di Carlo II d’Angiò (1283), che vi insediò i suoi amati domenicani. Dal 1231 erano stanziati i Benedettini nell’antica chiesa- monastero di S. Michele a Morfisa (oggi cappella inglobata in S. Domenico), ma Carlo II li scacciò (come già aveva fatto altrove, es. alla Sainte-Baume) per imporre la presenza dei Domenicani, che qui posero la loro Casa Madre nel regno napoletano.

L’edificio divenne chiesa della nobità e, più tardi, pantheon degli aragonesi. Dopo vari decenni di lavori, potè dirsi conclusa nel 1324; subì diverse ingiurie come incendi e terremoti. Venne completamente rifatta verso la fine del XVII secolo ad opera dell’architetto Francesco Antonio Picchiatti (lo stesso che lavorò anche all’obelisco, scoprendone le rovine archeologiche sottostanti). Con la soppressione napoleonica, cambiò destinazione d'uso e i frati vennero allontanati. Durante la II Guerra Mondiale venne danneggiata dai bombardamenti e soltanto nel 1953 si pose mano ad un accurato restauro di tutto il complesso riscoprendo, tra le altre cose, gli affreschi del Cavallini. La Chiesa è stata elevata a Basilica Minore nel 1921 da papa Benedetto XV.

Sono tre i livelli sui quali si sviluppa l’edificio conventuale: al piano terra si affacciano il "chiostro delle statue"[1] e la sala dove insegnò Tommaso d’Aquino; al primo piano si trovano la biblioteca, il refettorio, la Sala Capitolare e quella di San Tommaso, nei due piani superiori si trovano gli ambienti privati dei frati domenicani. In origine il complesso era sterminato, dotato di ben tre chiostri, che ne estendevano la superficie fino al  monastero di Santa Chiara, tanto per capirsi! Purtroppo due di quei chiostri non sono più visitabili perché il primo (quello di San Tommaso) è diventato nel tempo la sede di una palestra comunale mentre quello grande è sede del liceo Casanova. Tra l’altro questo chiostro ospitava la sala dove visse Giordano Bruno. Il percorso di visita guidata prevede anche la visita alla Cella di San Tommaso d'Aquino, che qui visse a più riprese e vi è conservato il Corocifisso miracoloso del XIII secolo che, secondo la tradizione, gli parlò.

Sotto la mensa d'altare della Cappella dove è conservato il Crocifisso  (custodito in una teca) vi è rappresentata la scena del santo aquinate mentre dialoga con il Crocifisso stesso. Dei tre chiostri, a sopravvivere è il chiostro delle statue o chiostro piccolo, che risale al XVII secolo. Abbiamo sentito nomi come quelli di Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno, personaggi cruciali per la storia della cristianità medievale. Non furono i soli ad avere legami con il complesso perché questo divenne una scuola teologica di primaria rilevanza in Napoli e costituisce uno dei più grandi e importanti complessi religiosi della città, con la sua arte, storia, cultura e fede. Tra gli alunni illustri ricordiamo, oltre a Giordano Bruno, i filosofi Giovanni Pontano e Tommaso Campanella.

Dell’architettura, delle opere d’arte e delle innumerevoli Cappelle della Basilica non possiamo soffermarci a parlare, data la vastità dell’impresa (facilmente si trovano notizie nel sito web ufficiale). Entrando, il primo ambiente che cattura l’attenzione è quello a destra, l’antica sala in cui Tommaso d’Aquino insegnava (e ancora oggi vi si tengono alcune lezioni di teologia); vi si conservano alcuni libri storici, un bel pavimento maiolicato e, prima di accedere alla sala, fate caso ad un’incisione laterale: ricorda il compenso percepito da Tommaso per le sue lezioni, un’oncia d’oro al mese.

La chiesa è liberamente visitabile e suggeriamo di prendersi del tempo perché è dotata di 27 Cappelle, opere d’arte, statue, sepolcri, ecc. Noi ci dirigiamo nella Sagrestia, locale che –nelle chiese normali- è spesso trascurato dai visitatori (se non chiuso e interdetto al pubblico, molte volte). Ma non qui, dove la Sacrestia non è certo un ambiente come gli altri, trovandosi il pantheon della dinastia aragonese.

 
 
  • La Sacrestia e le Arche Aragonesi: singolari sepolture di una dinastia

Per accedere alla Sacrestia è necessario essere accompagnati dalla guida e avere un biglietto a pagamento (si fa in loco), che vale indiscutibilmente la pena di acquistare. Appena varcata la soglia della Sacrestia si rimane interdetti anzitutto dalla raffinatezza dell’ambiente e poi da ciò che custodisce. L’aspetto attuale è quello conferito nel XVIII secolo; lungo il perimetro della magnifica sala corrono, in basso, armadi in legno di elegante fattura, realizzati da Giovan Battista Nauclerio (regista di tutta l’architettura interna e delle suppellettili), mentre la volta fu affrescata da Francesco Solimena con un dipinto intitolato “Trionfo della Fede sull’eresia per opera dei domenicani” (1707). Marmi policromi, stucchi, intarsi popolano l’atmosfera mistica della Sacrestia: sono trasformazioni settecentesche volute per “ammodernare” la sala che accoglievi il pantheon reale. Ma dov'è questa necropoli?

Alziamo lo sguardo e sul ballatoio ("passetto dei morti"), a circa 4-5 m di altezza, scopriamo la presenza di qualcosa di stupefacente, che la guida ci spiega: 42 bauli contenenti i corpi di nobili della famiglia d’Aragona, tra cui dieci re e dignitari. Un’ insolita maniera di farsi inumare, e che costituisce un unicum al mondo! I bauli sono fatti di legno, hanno dimensioni diverse (a seconda che vi fosse sepolto un uomo, una donna o un bambino); sono tutti ricoperti di sete e broccati di colore diverso.

Gli Aragonesi conquistarono il Regno di Napoli nel 1442 e vi regnarono fino al 1501. Questo è il loro pantheon ma i feretri non si sono trovati sempre qui sul ballatoio della Sacrestia. Pare che in origine fossero sparse per la Basilica, poi il re Filippo II di Spagna le fece riordinare nel coro, dove si trovavano fino al 1590. Da lì, nel 1594, furono spostate qui in Sacrestia per evitare i frequentissimi incendi a cui la chiesa era esposta. Alcuni dei bauli hanno accanto il ritratto del personaggio che vi fu deposto, altri recano una targhetta con il nome. Alcuni sono anonimi. Nel baule funerario di Alfonso I di Napoli (il capostipite della dinastia) non c’è il suo corpo: esso fu traslato nel 1666 nel monastero spagnolo di S. Maria di Poblet in Catalogna. Nei bauli che furono aperti sono stati trovati corpi mummificati in eccezionali condizioni di conservazione; importante è il corredo ritrovato: abiti damascati, veli, cuscini in seta, pugnali e stemmi della casata aragonese e di alcuni nobili appartenenti alla corte.

Purtroppo non si può accedere direttamente ai bauli: li si osserva, incuriositi, dal basso. Esiste chiaramente una stretta scaletta di accesso che un tempo qualcuno ha avuto il privilegio di calcare per raggiungere da vicino i curiosi sarcofagi, ma oggi nuove regole lo vietano. Scrive Sergio Lambiase[2] che i bauli non avevano serratura e si poteva sollevarne il coperchio. A lui capitò più volte di farlo e contemplare la mummia di Ferrante (figlio di Alfonso I), di Isabella d'Aragona, di Fernando Francesco d’Avalos, dei principi bambini…Tutto questo senza che nessuno gli intimasse di scendere (i frati chiudevano un occhio). I corpi “erano adagiati su letti di resina, foglie e argilla; erano ricoperti da una patina verde, come di muffa o di licheni affioranti. C’erano elementi di attrazione, seduzioni che non si possono dimenticare”, scrive Lambiase.

Ci sembra di vederlo, in quelle intrepide azioni, i suoi ricordi sono preziosi per noi. Per di più egli, per il suo lavoro di giornalista, nel tempo ebbe modo di scoprire e raccontare altre imperdibili chicche. La nostra guida, tuttavia, è molto brava e ci riporta al presente; dice che gli abiti che fasciavano le mummie sono stati tolti e collocati in appositi armadi e cassetti dell’attigua Sala del Tesoro (qui un tempo vi si conservavano gli oggetti più preziosi, in gran parte dispersi), che tra poco visiteremo. La curiosità verso le arche è però superiore a tutto: perché gli Aragonesi decisero di avere nei bauli da viaggio la loro ultima dimora? Concettualmente non siamo stupiti perché quando si parte si prepara la valigia, ovvero un baule. E loro scelsero di partire per l’aldilà come affrontassero un viaggio.

 

Osserviamo i bauli, uno per uno, fin dove può spingersi l'occhio: quelli sistemati sulla balaustra della controfacciata sono ricoperti da stoffa bianca, non colorata come gli altri. La nostra guida ci spiega che appartengono (partendo da sinistra) al re Alfonso I di Napoli (non più nell'arca perchè traslato in Catalogna), a quello di suo figlio Ferrante I (o Ferdinando I, + 1494) e a quello del pronipote re Ferrandino (o Ferdinando II), morto forse nel 1498.  Quello colore avorio appartiene alla regina Giovanna IV, morta nel 1518. DI alcuni bauli si conoscono esattamente i rispettivi "occupanti" di altri no, come vedremo. La datazione al radiocarbonio e la dendrocronologia hanno sicuramente identificato 18 individui, altri nove sono stati identificati in modo incerto (tutti e 27 in deposizioni primarie); per 4 individui manca l'identificazione perchè si tratta di deposizioni secondarie o rideposizioni. Sono stati esplorati 38 sarcofagi (8 erano vuoti e uno conteneva due corpi). Il tutto desta una certa impressione...

  • Le analisi scientifiche

Leggiamo ancora qualche passo di Sergio Lambiase, il quale un giorno (si era negli anni '80 del secolo scorso) – capitando nella sagrestia per scrivere un articolo-  vi trovò dei medici[3] “con tanto di guanti e mascherine”. Inizialmente restii a far salire lui e il fotografo sui ballatoio, li accolsero poi nella stanzetta di fianco alle arche, dove si trovava un tavolo anatomico: stavano conducendo una serie di analisi sui corpi mummificati per capirne i motivi del decesso, tra le altre cose. L’aspetto anatomo-patologico è uno dei più interessanti perché di questi personaggi è giunta documentazione e quindi incrociare i dati storici con i reperti paleopatologici  è assai importante. Prima di effettuare lo studio degli individui in S. Domenico Maggiore, mummie di questo tipo erano no­te solo nelle Catacombe dei Cappuccini di Vienna (dove sono sepolti membri della famiglia reale asburgica).

Lo studio delle mummie, naturali e artificiali, della Basilica domenicana (risalenti al XV-XVII secolo) ha permesso di ricavare informazioni sulle tecniche di imbalsamazione in epoca rinascimentale, che sono risultate assai complesse e denotano una lunga ed estesa consuetudine (Fornaciari, 2008). Sono stati esplorati in tutto 38 sarcofagi, 8 dei quali sono risultati vuoti mentre uno conteneva una deposizione doppia. Quasi tutte le depo­sizioni sono risultate più o meno disturbate.

Abbiamo parlato di mummie artificiali, cioè imbalsamate, che costituiscono la parte più cospicua, e di mummie naturali, cioè conservatesi integre senza imbalsamazione e ne sono emerse sette, peraltro in buono stato di conservazione. Quali sono i fattori che hanno permesso una conservazione naturale dei corpi? Forse a) il clima di Napoli; b) la collocazione dei sarcofagi, posti a circa 5 m di altezza vicino ai finestroni della sacrestia; c) particolari condizioni microclimatiche della Basilica di S. Domenico.

Ma c'è dell'altro, qualcosa che i visitatori non vedono e non conoscono: ambienti sotterranei alla chiesa scoperti in anni recenti (come a Monopoli, sentiamo di ricordare). In due ampi locali -dotati di ampi sistemi di ventilazione - gli archeologi hanno riconosciuto il luogo dove avveniva la disidratazione dei cadaveri (scolatura); hanno trovato posti numerari per le salme e spessi letti di sabbia per la raccolta dei liquami. Una pratica, questa, molto frequente nell'Italia meridionale (ma non ne è immune il resto della Penisola). In ambienti simili, detti colatoi, si sono conservate le otto mummie di Monopoli, ad esempio, appartenenti alla Confraternita di Nostra Signora del Suffragio (morte nel 1700 e nel 1800). Sarebbe interessante che un giorno anche i colatoi sotto San Domenico potessero entrare a fare parte nel percorso di visita.

L'analisi scientifica ha permesso un'altra scoperta fondamentale, aprendo la strada a nuove conoscenze: di apprare di cosa si morisse in quel periodo alla corte di Napoli e perchè. Sono stati evidenziati tre casi di malattia infettiva (vaiolo, sifilide venerea, condiloma) e almeno tre casi di patologia neoplastica (carcinoma cutaneo ed adenocarcinoma). E non sono pochi, in una casistica di individui così esigua; il rapporto percentuale con i casi odierni di tumore è sconcertante. Quindi di neoplasia si moriva anche allora (probabilmente non sapendolo o non definendo il tumore con qualche specifico termine). "Gli studi paleopatolo­gici effettuati hanno cosi dimostrato che è possibile applicare a questo tipo di materiali alcune moderne tecno­logie biomediche, come l’immunoistochimica, la microscopia elet­tronica e la biologia molecolare, con risultati di altissimo interesse per la storia delle malattie" (Fornaciari, 2008).

Torniamo al racconto di Sergio Lambiase, e al giorno in cui trovò al lavoro sui bauli il prof. Fornaciari e un suo collega. In quel momento era sottoposta ad esame paleopatologico la duchessa di Vasto, Maria d’Aragona, morta di sifilide. I due medici avevano trovato tracce di treponema pallidum nelle ulcere del corpo, inoltre la nobildonna aveva anche un tumore uterino in fase iniziale. La temibile sifilide fu importata a Napoli dalle truppe di Carlo VIII; in Francia era già diffusa ma non le si dava l’importanza che avrebbe meritato. La promiscuità favorì la diffusione del battere e dall’arrivo delle truppe francesi la sifilide dilagò nell’ambiente cortigiano[4]. I denti della mummia di Maria, stesa sul tavolo anatomico, erano neri: colpa dell’unguento di Mercurio che si adoperava per proteggersi dal morbo (secondo una credenza). Con l’andare del tempo, il mercurio causava l’annerimento dei denti e si cercava di rimuovere tale patina con stuzzicadenti metallici o d’avorio, che però lasciavano il segno sulla dentatura stessa. Tale caratteristica è stata riscontrata sulla mummia di Isabella d’Aragona (la quale probabilmente era affetta anche lei da sifilide).

Ce ne parla anche la nostra guida, rispondendo con garbo e competenza alle nostre domande e definisce sorprendenti i risultati a cui arrivò l’equipe del prof. Fornaciari: oltre alla malattia venerea di Maria d’Aragona, venne scoperto il vaiolo sulla mummia di un bimbo di due anni, ancora attivo! Venne anche compresa la causa della morte di Ferdinando Orsini, duca di Gravina di Puglia: era affetto da un tumore maligno nella regione naso-orbitaria destra (carcinoma basocellulare). Il prof. Fornaciari dimostrò inoltre, nel 1996, la mutazione dell’oncogene K-RAS  nel tumore che uccise nel 1494 il re di Napoli Ferrante I di Aragona (chiamato anche Ferdinando I), una scoperta che costituisce tuttora un vero e proprio unicum in Paleopatologia.

Il re aveva 65 anni. Almeno una terza mummia ha rivelato segni di tumore, quella di Luigi Carafa di Stigliano (1511-1576), la cui mummia ha evidenziato tracce di adenocarcinoma del colon in fase iniziale di infiltrazione ed era affetto da iperstosi idiopatica scheletrica diffusa. Antonello Petrucci, segretario di Ferrante I (Ferdinando II), presentava una calcolosi della colecisti. Ma egli fu decapitato perché sospettato di aver partecipato alla “Congiura dei Baroni” (ebbe comunque il privilegio di essere sepolto qui).

Le analisi scientifiche hanno anche stabilito che i membri di casa Aragona erano tendenti all’obesità, alla gotta, al diabete, alla cirrosi, per l’elevato consumo di zuccheri, carni, vino, grassi e proteine animali. Per approfondire vedasi la relazione preliminare del prof. Fornaciari, disponibile qui.

  • Segreti ...sotterranei
Si deve pensare che conservare i defunti in questa Sacrestia non sia stata un'idea nuova; un tempo dovevano trovarsi qui le sepolture dei frati domenicani. Questa è più di una ipotesi perchè ne parla senza remore anche il pannello informativo, indicando nel sottosuolo della Sacrestia una funzione cimiteriale. Non va dimenticato che qui vi era conservato il cuore di Carlo II d'Angiò, in un prezioso reliquiario d'argento (oggi disperso) e nel convento è ancora conservato un braccio di S. Tommaso d'Aquino. Ambienti vetusti erano emersi già al tempo dell'erezione dell'obelisco ma riferibili ad epoche arcaiche (greche). La Sacrestia cela però ulteriori curiosità. Vi è una lapide per terra, che balza subito all’occhio: è quella del padre domenicano e primo vescovo cattolico di New York, Richard Luke Concanen. Come mai sia stato sepolto qui, è stato spiegato dalla nostra guida. Il frate nacque in Irlanda, a Kilbegnet, nel 1747 e, sorretto dallo zelo ecclesiastico, divenne sacerdote e poi vescovo. Ma la sua ordinazione episcopale prevedeva di andare a New York a svolgere il proprio mandato. Era stato lui stesso, Concanen, a promuovere la causa della necessità di instaurare vescovi cattolici nelle ex-colonie inglesi del Nuovo Mondo. Così, quel suo desiderio venne esaudito il 24 Aprile 1808, quando il cardinale vaticano Michele di Pietro lo ordinò vescovo di New York. Prima di raggiungere gli Stati Uniti, però, raggiunse Napoli per l’imbarco. E qui finì la sua vita, senza poter mai raggiungere New York, di cui era vescovo ma quella cattedra lo vide sempre vacante, suo malgrado. I soldati napoleonici a quel tempo stanziati in città, lo ritenevano un nemico e lo osteggiarono in ogni modo (inoltre vi era il blocco continentale che impediva alle navi di raggiungere i porti americani); Concanen fu così costretto a vivere in città per tre anni, inviando quasi quotidianamente lettere oltre oceano con l’intento di dispensare istruzioni e consigli per gli altri religiosi che già si trovavano nelle Americhe. Nel 1810 morì (di cosa?) e fu sepolto nel pavimento della Sacrestia di San Domenico (ordine cui apparteneva).
Oltre ai colatoi di cui si è parlato precedentemente, la Basilica nasconde altre ambienti "segreti", che da pochi giorni lo sono un po' meno, per i visitatori: In occasione del 1 e 2 Novembre scorsi (2018) è stata infatti aperta alle visite una parte ipogea mai resa accessibile prima: si tratta della cripta della Cappella Carafa Cantelmo Stuart principi di Roccella. Visitando la chiesa non si pensa che vi sia anche questo ambiente sotterraneo, eppure esiste! E sembra pure molto affascinante: il sito ufficiale della Basilica, presentando l'evento, scrive che è "ancora al suo posto la terra santa usata per il rito della doppia sepoltura, il processo attraverso il quale la morte è manipolata dilatando cronologicamente il momento della separazione del defunto dalla comunità". Stiamo allegri perchè il museo DOMA di San Domenico Maggiore - oltre a rendere accessibile la cripta tutti i sabato e domenica di novembre 2018 con itinerario guidato - sarà poi visitabile tutto l'anno su prenotazione per gruppi di minimo 10 partecipanti. Direi che varrebbe la pena di fare questo percorso, potendo, e una ragione aggiuntiva è una statua sconosciuta del Sanmicheli (autore del Cristo Velato nella Cappella Sansevero) e bottega: una Vergine con Bambino e Anime del Purgatorio (per ulteriori informazioni cliccare qui).
  • Leonardo da Vinci sepolto in uno dei bauli?

Non ce lo domandiamo a caso, ovviamente, ma perchè ne siamo stati imbeccati da un articolo presente nel sito ufficiale della Basilica stessa. Come sappiamo, le spoglie di Leonardo, storicamente, sarebbero state disperse dai Rivoluzionari quando si trovavano ancora nel Castello francese di Amboise, nella Cappella di St. Hubert. Ma, mancando riscontri oggettivi, ogni tanto emergono teorie alternative. Tra di esse, che l'artista riposi in una delle arche della Sacrestia di San Domenico a Napoli. I misteriofili a oltranza penserebbero che potrebbe essere uno dei quattro individui senza identificazione. Quattro individui "rideposti", cioè che riutilizzarono il baule (giacitura secondaria). Viene da chiedersi chi ci fosse al loro posto, prima. Chi si è sentito autorizzato ad occupare un baule funerario degli Aragonesi? A quanto pare, comunque, i quattro anonimi non avrebbero gradi di parentela con la casata (sebbene sappiamo che nelle arche non si trovano soltanto membri della famiglia d'Aragona ma anche alcuni dignitari che lavorarono per loro, ad esempio). Come sarebbe finito Leonardo da Vinci in una delle Arche di questa Sacrestia?; Il mistero sarebbe svelato in un libro di Maike Vogt-Lüerssen, nel quale ipotizza un possibile matrimonio tra Isabella d'Aragona (1470-1524) e il genio vinciano. Seconde nozze, chiaramente, dalle quale sarebbero nati cinque figli, due dei quali sepolti insieme alla madre proprio in queste arche. Aggiunge, forse osando troppo, che potrebbero anche esservi i resti di Leonardo. Un tassello importante è che Isabella sarebbe in realtà la donna ritratta nel celeberrimo quadro della Gioconda, una tesi proposta da Luca Tomio (v. link).. Figlia dell’erede al trono di Napoli Alfonso II e di Ippolita Maria Sforza, fu moglie di Gian Galeazzo Maria Sforza e colta quanto osteggiata duchessa di Milano. Proprio alla corte sforzesca conobbe Leonardo. Fu sepolta nel pantheon della famiglia aragonese, in una delle 42 arche della Sagrestia di San Domenico Maggiore.

Prima di lasciare la Sacrestia e dirigerci nel Museo per vedere i corredi con cui i nobili aragonesi furono inumati, osserviamo l'elegante Cappella Milano, nella parete di fondo, così chiamata perchè voluta da esponenti della famiglia Milano come loro sepolcro; alle pareti laterali sono presenti due notevoli affreschi di personaggi illustri appartenuti a detta casata, i Milano, appunto (opere di Giacomo del Po, 1725); sotto i ritratti vi è una lunga dedica. Il sacello è anche detto Cappella dell'Annunciazione per la scena rappresentata nella pala d'altare, opera di Fabrizio Santafede (1560-1634). L'altare è seicentesco, opera dei fratelli Ghetti.

  • Com'erano vestite le mummie degli Aragonesi?
Prima di rispondere, occupiamoci di conoscere meglio la Sala in cui ci troviamo. Anzitutto il percorso di visita, come già accennato, fa parte di quello che un tempo era noto come Tesoro della Basilica di San Domenico Maggiore, oggi Sala degli Arredi Sacri. Probabilmente qui si trovava il nucleo medievale del Capitolo dei Domenicani ma la sala che vediamo fu realizzata nel 1690 per ospitare, inizialmente, le teche d'argento contenenti i cuori di Carlo II d'Angiò (1254-1309), Alfonso I di Napoli (1394-1458) e Ferdinando I di Napoli (Ferrante I), tutti purtroppo dispersi in seguito all'occupazione cittadina da parte delle truppe napoleoniche all'inizio del 1800. La Basilica deteneva però anche un cospicuo patrimonio di oggetti liturgici preziosi e quindi nel 1685 si rese necessario dotare la Sala di grandi armadi in noce per contenerli e proteggerli.
 
Al centro della Sala degli Arredi Sacri si trova una colonna medievale a sostegno della volta. Su di essa è rimasto un residuo di affresco probabilmente coevo
Bellissimo il pavimento in cotto maiolicato (opera di Donato e Giuseppe Massa, secondo quarto del XVIII secolo)
 
Nel corso del tempo molti reperti del Tesoro sono stati depredati e soltanto nel 1988 la Sala è stata adeguata agli standard museali moderni. In quell'occasione furono restaurati gli oggetti d'arte e di culto, gli arredi lignei ma soprattutto abiti, scarpe e tessuti che erano stati tolti alle mummie aragonesi, in occasione delle analisi scientifiche. Si decise di esporre al pubblico questi capi di vestiario di grande interesse storico, a partire dalla mostra permanente inaugurata nell'anno 2000 e tutt'oggi in corso. Sono quattro le Sezioni espositive tematiche, corrispondenti ai quattri grandi armadi presenti:  I. Collezione di Abiti delle Arche Aragonesi, II. Processioni, III. Tesoro, IV. Arredi Sacri. 
La Collezione di Abiti che stiamo per vedere dietro le ante degli armadi, nei grandi cassetti, nelle vetrine, fa riflettere. Per un momento ci appare un po’ macabra questa pratica di spogliare le mummie, che erano state appositamente così preparate per il loro viaggio nel baule, verso l’Ade. Ma certo è stato necessario togliere gli indumenti per restaurarli, altrimenti con il tempo sarebbero andati perduti. Inoltre, nella loro collocazione attuale, i visitatori possono farsi un’idea dell’artigianato tessile di quel tempo, la “moda” in voga presso la corte aragonese a Napoli, e anche commuoversi vedendo le scarpine dei bimbi… Tra i più belli spiccano: il cuscino avorio di Ferdinando I, l’abito damascato color giallo ocra di Isabella Sforza d’Aragona, l’abito di raso appartenuto a Pietro d’Aragona, in raso decorato con nastri di velluto posti orizzontalmente e cappello in velluto di color giallo oro. Diverse foto dei capi d'abbigliamento le abbiamo inserite nel paragrafo "Le analisi scientifiche"; di seguito altre immagini:
A sinistra, il cuscino avorio di Ferrante I (Ferdinando I); è in seta ed argento su cui è ricamato un guanto nero e il motto benaugurante: "Juvat".
A destra, abito damasco e sottoveste (famiglia reale, XVI secolo)
Abito damascato di Isabella Sforza d'Aragona (1470-1524). Ha lunghi nastri di seta per legare le maniche al corpetto con scollatura quadrata. La gonna ha una decorazione a tralci di vite che dipartono da un melograno, e presenta una balza nel bustino, che veniva imbottito con lana per ottenere un girovita più tornito, seguendo l’ideale estetico dell’epoca
 
La bravura della nostra guida ad indicarci i dettagli e a raccontarci alcuni aneddotti ci ha fatto scoprire un mondo che non conoscevamo, invogliandoci ad approfondirlo. Per qualche tempo ci siamo sentiti parte di quell'epoca, immaginando i proprietari dei relativi capi d'abbigliamento: donne, uomini e bambini che, sebbene nobili o sovrani, conobbero gli stessi sentimenti umani che accomunano ogni individuo. I vestitini dei piccoli e le loro scarpette ci hanno stretto il cuore, ma dobbiamo guardare all'insieme come un vero e proprio spaccato del costume quattro-cinquecentesco.
La visita è proseguita con i pezzi liturgici delle Processioni, databili tra XV e XIX secolo (busti di santi, tessuti, candelabri, vasi portapalma). In particolare ci ha colpito un mirabile Carro del Sole (1669-1685), intessuto nel lino con sete policrome, filo d'oro e d'argento, di manifattura napoletana. Appartiene, insieme ad altri tessuti, ad una serie dedicata alle Virtù di S. Tommaso d'Aquino. Non capiamo come il Carro del Sole (di reminescenza pagana) possa rientrare tra di esse ma si sa che il set fu donato all'Ordine dei Domenicani da una discendente del santo aquinate, Vincenza Maria d'Aquino Pico, per onorarne la memoria; i preziosi tessuti venivano utilizzati come decorazioni parietali della chiesa nel giorno di festa del Santo. Interessanti anche i reperti costituenti il Tesoro (oggetti e paramenti sacri di particolare preziosità, che danno una minima idea dell'immensa ricchezza di manufatti accumulata dai frati durante i secoli) e quelli della Sezione Arredi Sacri (busti, croci, vasi, candeleieri, un leggio, ecc.).
 
  • Il Salvator Mundi
Un motivo in più che ha reso indimenticabile la nostra visita a questa Basilica è un dipinto, conservato gelosamente in un armadio del Museo (Sezione Arredi Sacri): il Salvator Mundi, di scuola leonardesca. Anzi, nel 1666 De Lellis affermava che la paternità del dipinto fosse da attribuire proprio al genio vinciano. In ogni caso, è veramente affascinante. Inevitabile un accostamento con un altro dipinto intitolato allo stesso modo, attribuito a Leonardo e, per questo, battutto all'asta per 450 milioni di dollari (se lo è aggiudicato un principe degli Emirati Arabi). Alcuni critici d'arte dissentono da tale attribuzione, ritenendolo un'opera di Bernardino Luini (andiamo bene...).
Comnque quello conservato qui nel Museo di San Domenico Maggiore a Napoli è troppo intrigante...
 
 
 
 
 
(Autrice: Marisa Uberti. Vietata la riproduzione e/o il copia/incolla senza autorizzazione e/o citazione delle fonti).

 

 


[1] Si chiama così per la presenza di 4 statue provenienti dalla chiesa di San Sebastiano. Qui si trova la scala monumentale in piperno che conduce ai livelli superiori

[3] Uno era Gino Fornaciari (Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Pisa), il massimo esperto di paleopatologia e archeologia funeraria.  Dal 1983 al 1987 ha diretto l’esplorazione e lo studio delle mummie delle tombe aragonesi del XV e XVI secolo nella Basilica di S. Domenico Maggiore.

[4] In ogni strato della società ma parliamo di corte, attenendoci nello specifico agli Aragonesi