Crocifisso si, crocifisso no! 

                              (Costanzo Ajello)

 "Non sono religioso, ma amo pensare religiosamente
Ludwig Wittgenstein
 

 

C’è ancora bisogno della Croce, c’è bisogno della
vostra croce, Gesù. C’è bisogno della Croce di quel
vecchio crocifisso e di voi stesso. Bisogna piantarla
nel nostro cuore affinché essa vi si radichi e porti le
foglie, i fiori, i frutti dell’eterna raccolta
"
Francis Jammes (Il crocifisso del poeta)

 

Nell'attuale clima di fondamentalismi religiosi, l'esposizione del crocefisso nei luoghi pubblici ha ispirato esacerbati dibattiti fra favorevoli e contrari, anche fra autorevoli esponenti della cultura, in un esasperato spirito di faziosità, riferiti a negare o rivendicare "il primato" di tale simbolo nella coscienza religiosa universale; di fatto la diatriba verte esclusivamente sull'affermazione confessionale di tale emblema e questo motivo si vuol attribuire anche alla riluttanza dei musulmani ad accettare la presenza del crocifisso in luoghi pubblici!
In effetti questa è, ancora una volta, la dimostrazione che i popoli ignorano la cultura di altri, poiché se ci dedicassimo di più a conoscere abitudini e tradizioni di altre società rappresentative della alterità umana, sapremmo che pur non essendo esplicitamente contemplata nel Corano, la raffigurazione di esseri dotati di anima, persone e animali, è proibita da molti altri testi sacri musulmani, quindi non si tratterebbe più della reazione ad una prepotenza, ma di un atteggiamento del tutto spiegabile alla luce di una credenza consolidata. Per i musulmani sciiti la resistenza a rappresentare figurativamente i profeti ispiratori sembra che nascesse dalla sparizione del 12° Imam, personaggio che come Enoch, Elìa e Cristo stesso, sarebbe scomparso dal mondo visibile pur non valicando la soglia della morte terrena secondo gli insegnamenti sempre del Corano e tuttavia nel periodo del Grande Occultamento fra il 330 ed il 942, si sarebbe manifestato ad alcuni ispirati senza però mostrare le proprie sembianze.

Indipendentemente da ogni distinzione confessionale, coloro autodichiarantisi laici, che si oppongono all’esposizione in pubblico di tale simbolo, non manifestano altro che il disconoscimento dei valori ad esso collegato e pertanto alla mercé di una pericolosa deriva spirituale. In tanti casi si denuncia l’idolatria, ma si dovrebbe riflettere sulla frase dell’esperto di teologia e di problemi religiosi, nonché profondo studioso di filosofie orientali, l’inglese americanizzato Alan W. Watts, vissuto nel secolo scorso, anche se apparentemente controversa:”L’idolatria non è l’uso delle immagini, me il confonderle con quello che rappresentano: e in questo senso le immagini mentali e le astrazioni elevate possono essere più pericolose degli idoli di bronzo”. E’ vero d’altronde che la magia deteriore di certe immagini mentali che vengono assunte come oggettive, è il prodotto di forme o emblemi simbolici appartenenti a tradizioni ermetiche o cabbalistiche ed anche ai mandala del buddismo.

D’altronde, molto più sospetta mi sembra l’esposizione nei reliquari di resti organici, attribuiti a vari venerabili, per richiamare la venerazione dei fedeli e questa mi sembra veramente una pratica idolatra e pagana, tanto più che tale esibizione originerebbe da una mistificazione sulla natura dei reperti stessi come è stato testimoniato, in casi frequenti, da studiosi delle varie materie attinenti.
Questi resti sono oggetto anche di mostre itineranti che appartengono un po’ a tutte le religioni o sono meta di pellegrinaggi come, fra altri, è il caso dello stupa di Piprawa in India al confine con il Nepal, dove certo William C. Pepé, nel 1898, credette di aver trovato urne e reliquari buddisti, ivi inclusa l’urna presumibilmente contenente le ceneri del Buddha dopo la cremazione. L’autenticità di tale ritrovamento venne confermata da un autorevole esperto britannico della Royal Asiatic Society, Thomas Rhys Davids, che lo sfruttò per una serie di conferenze e di pubblicazioni al fine di omologarne la legittimità scientifica, finché i resti vennero ripartiti fra comunità buddiste del Giappone, Birmania, Ceylon e Thailandia. Soltanto i dubbi di Andrew Huxley, per lunghi anni docente di diritto buddista alla School for Oriental and Afican Studies di Londra, ne rimisero in discussione l’originalità e la diatriba successiva in vari ambienti sia accademici che politici, costrinse lo stesso certificatore a dare le dimissioni da segretario dell’autorevole consesso.
Tuttavia questo malvezzo è stato condiviso da altri nella storia e sempre a proposito di reliquie del Buddha, il tedesco Alois Führer fu costretto a dimettersi dall’amministrazione dell’India britannica, dovendo ammettere, come riferì il “Launceston Examiner” dell’8 dicembre 1998, di aver donato a un monastero birmano, un dente del Buddha, dente che era invece appartenuto ad un animale; secondo la testimonianza di un amico che lo ha visto, la dimensione di tale reperto sarebbe talmente sproporzionata rispetto a quella più ridotta dello stesso particolare umano, da farlo apparire poco credibile anche al più sprovveduto dei profani…
Personalmente non ho sentito nessuno, fra laici, professanti di qualsiasi religione o non credenti, anche ricercatori del significato profondo del messaggio spirituale della vicenda terrena di Gesù, e non necessariamente assertori della natura divina del Cristo come "unto del Signore", dichiarare l'appartenenza del Suo esempio a tutta l'umanità, nonostante il concetto di “corpo di Cristo“ rivesta un significato antropologico oltre che sacrale… Il nostro poeta Franco Fortini, nella sua raccolta ”Varsavia 1939” ha scritto questi versi che sentiamo intimamente con condivisione:”Noi non crediamo agli dei lontani/né agli idoli né agli spettri che ci abitano/La nostra fede è la croce della terra/ dov‘è crocifisso il figliuolo dell‘uomo“...

Vorrei pertanto che fosse concesso a chi, come il sottoscritto, prescinde da una collocazione confessionale della Sua figura, di esprimere comunque ostensibilmente il riconoscimento del Suo sacrificio (anche qualora virtuale), come una delle espressioni più sublimi di fratellanza ed amore indiscrimnato, l’“agape” appunto, portata, fra altri, quale contributo all'illuminazione della coscienzadegli uomini per la ricerca del bene e della giustizia; questa riflessione, di fatto, è lo scopo della visualizzazione della Sua immagine, come per altri simboli di altre credenze, carica di tale senso per ricondurci ad un esempio spirituale.
Un giovane saggista e romanziere, il francese Matthieu Baumier, ha scritto in un suo libro:”La croce è la chiave per entrare nella vita: essa permette di comprendere che la vita dev’essere vissuta qui, pienamente”, frase edificante che ci sembra così impregnata di spiritualità che non può essere ignorata. Sorprende alquanto che per difendere l’esposizione del crocifisso in Italia si sia impegnato l’avvocato americano, ebreo osservante e figlio di un rabbino, Joseph H. H. Weiler, che davanti alla Grande Chambre della Corte europea ha condotto con successo la causa “Lautsi contro Italia”.
Purtroppo la moderna “civilizzazione dell’immagine” veicolata dalla carta patinata, dal cinema e dalla TV, ha contribuito alla volgarizzazione di qualsiasi rappresentazione figurativa coinvolgendo anche quelle più virtuose ed evocatrici che rivestono una funzione simbolica.
La cristologia ellenica si riferisce a Gesù non come al portatore del messaggio ma come al “messaggio” di per sé e questo mi sembra proprio il senso di tale personaggio e della sua presunta leggenda.
Mi sembra che un richiamo iconografico super partes alla consapevolezza della Sua condotta, anche se il Suo personaggio è da scoprire in controluce e cioè antitypos, debba costituire un segnale imperituro al pensiero ed all'azione degli adulti presenti e futuri ed un motivo d'orgoglio a tutti gli uomini di appartenere alla Sua stessa specie, capace quindi anche di esprimere esistenze come la Sua, oltre, naturalmente, che come edificante messaggio di speranza.
Il Concilio Vaticano II avrebbe voluto sottolineare la “contemporaneità” permanente di Cristo e, in un certo senso, il filosofo danese Søren Kierkegaard dichiarava:”L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di amministrarlo”.
Nella mia affermazione mi approprio delle parole di Origene, celebrato storico della Chiesa, pur non ammettendo nessun mio legame ideale con tale istituzione:“Felici sono coloro che non hanno più bisogno del Figlio di Dio come medico che cura l’anima, né come pastore, né come redentore, ma solo come saggezza, come parola, e come esempio di virtù” (in Ioh., 1, 20, 124). Si possono addurre prove di origine razionale e queste, forse, smentirebbero la esistenza del Cristo, che si direbbe, nella Sua veste leggendaria, soltanto il parto di una manipolazione allegoricoretorica del più grande personaggio mediatico della storia, ossia del dissidente ebreo Paolo di Tarso; tuttavia difficilmente,
convincerebbero chi crede, poiché credere non vuol dire solo affermare che “qualcosa” esiste, ma in-formare tutta la propria condotta ad un insieme di valori che derivano da tale credenza.
Gli insegnamenti cristiani non sono pertanto, necessariamente, propedeutici ad una conquista del paradiso ultraterreno, ma l’espressione di una disciplina di vita terrena nel senso, più prettamente, di un’etica informatrice di ogni nostra azione virtuosa da partecipare all’intero contesto della nostra esistenza immanente. Il pioniere dello studio della religione comparativa nel XIX sec., David Friedrich Strauss, afferma nel suo “Vita di Gesù”:”essendo fallito il tentativo di mantenere in combinazione l’ideale in Cristo con l’elemento storico, questi due elementi si separano: il secondo decade come residuo naturale, e il primo ascende come puro sublimato al mondo etereo delle idee”.
A chi nega, forse con ragione, l’esistenza storica di Gesù, vale la pena di ricordare che Egli è diventato oramai un nostro compagno di viaggio ovvero una presenza inalienabile nella storia quando anche fosse per una narrazione metastorica, (per gli ebrei stessi, tuttavia, il Gesù di Nazaret, almeno
a partire dal XIX secolo, è diventata una figura storica concreta, definita dal grande pensatore ebreo Martin Buber “fratello maggiore“, pur avendolo dichiarato dagli stessi, in altri tempi, morto impiccato e non crocifisso).
Dallo studio della mitologia più remota è del resto ammissibile che le descrizioni evangeliche siano una confluenza rielaborata di altre leggende religiose precedenti, ipotesi che non viene neanche del tutto rifiutata da un eminente cattolico come il Cardinale Henri de Lubac nel suo “Aspetti
del Buddismo”, nonostante sia difficile collocare le scritture canoniche appartenenti alle varie religioni in tempi precisi, precedenti o successivi, ma sicuramente una contaminazione, o meglio, una fecondazione appare indiscutibile. Se non altro anche per il grande Spinoza, nato ebreo e divenuto non monista si trattava di un personaggio eccezionale nella storia dell’umanità, che definiva, “il più grande dei filosofi”, per quanto si possa disquisire sull’utilità dei filosofi. Ciò soprattutto in un' epoca
di materialismo dilagante, che registra una rarefazione di genuini modelli di virtù.
Vale la pena di citare le parole di Gianfranco Ravasi, che ammiro come eminente biblista, studioso e uomo di pensiero a prescindere dalla suo preminente incarico nell’ambito della gerarchia ecclesiastica:“ Gesù è una figura che non vive solo in sé: essa si cela anche nei volti dell’intera umanità, come Dio incarnato per i credenti e come segno di amore e di libertà per tutti (straordinaria è l’idea che un lineamento del viso di Cristo, per altro a noi ignoto, sia racchiuso in uno specchio che riflette le nostre facce”. F. Dostoevskij veniva criticato dai suoi contemporanei per la sua fede in Cristo e rispondeva:” Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi” ed in una lettera del 1854 dava forza ancora maggiore a questa sua posizione, sostenendo:“Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”; può suonare un’affermazione paradossale ma spiega bene la pregnanza di questo simbolo.

La presenza di questo simbolo, comunque sia inteso come signum fusteum (immagine di legno) dal cavaliere Arnaud Sabbatier nel 1307, definizione del resto giustificata dalla frase classica “Ecce lignum crucis/ In quo mundis pependit (Ecco l‘albero della croce, cui fu appesa la salvezza del mondo”), che già circa mille anni prima era stato al centro di un’invettiva rivolta da Ambrogio da Milano a Simmaco ed alla tradizione religiosa romana, con le parole “Voi reputate vostro dio un pezzo di legno. Che venerazione offensiva” o come imaginem hominis (immagine di un uomo), dovrebbe quindi essere una libera scelta della coscienza collettiva come patrimonio spirituale dell'umanità intera e non come uno strumento di scissione e di distinzione, che tradirebbe l’autentico intento di sincretismo e di unione nell'implicita aspirazione di Gesù.
Nella tradizione cristiana, forse nell’alveo della tradizione aniconica di religioni precedenti, va ricordato che partendo dalla dichiarazione di San Paolo:”Non conosco Cristo secondo la carne” (cfr. 2 Cor 5, 16), non vi furono rappresentazioni ufficiali del Cristo, dichiaratamente avversate da certi esponenti come Epifanio, né tanto meno della croce ed anche quella rinvenuta più recentemente ad Ercolano e forse risalente al II secolo, non sarebbe altro che una “croce latina” senza nessun collegamento con il cristianesimo. Sembrerebbe che il valore emblematico della croce risalga alla testimonianza della “Lettera di Barnaba” e soltanto dopo la legge di Costantino, che abolisce il supplizio della croce, la croce semplice avrà rappresentazione a partire dal V secolo. Gli studiosi Gerard de Champeaux e Sebastien Sterck sostengono che la croce è uno dei simboli più antichi del mondo e lo storico della filosofia Gabriele La Porta scrive nel suo “Dizionario dell’inconscio e della magia”:”Essendo sinteticamente composta di due elementi, è espressione della compenetrazione o dell’opposizione di due ambiti opposti dello spazio e del tempo, come il cielo e la terra”, associandola quindi ad un riferimento universale piuttosto che specificamente confessionale. A sua volta Jakob Böhme, il filosofo mistico vissuto a cavallo tra il XVI e XVII secolo, riteneva la croce il segno fondamentale di tutte le cose, compresa in una ruota e i cui due assi attraversano tre mondi, come appare nell’alchimia rosacrociana per designare l’arcano “sale dell’alleanza” intercorso fra Dio e il popolo d’Israele, successivamente replicata con tutta l’umanità tramite il corpo di Cristo e ancora come rappresentazione del cuore di Dio a forma di cerchio diviso, “poiché la croce è la sua divisione”.

Del resto il Tribunale penale internazionale riunito all’Aja nel 2001, si è espresso, a proposito dei crimini commessi dai serbo-bosniaci contro la comunità musulmana, condannando i responsabili anche con la motivazione di un attacco contro “l’identità religiosa di un popolo”, partendo dal principio che:”tutta l’umanità è danneggiata dalla distruzione di una cultura religiosa unica e del relativo patrimonio culturale” e pur in condizioni meno drastiche, tale spirito si può applicare all’ambito del quale stiamo discutendo.
Allo stesso tempo la storia di Gesù potrebbe essere di stimolo di accrescimento culturale e ad approfondirne il significato, a chi, per sua sfortuna, non la conosce. Del resto, qualora si trattasse solo di un mito, vale ricordare quanto espresso da Mircea Eliade, che:“La funzione del mito è quella di stabilire i modelli esemplari di tutti i riti e di tutte le azioni umane significative”; di qui anche la funzione virtuosa di un mito! Il mito ci è specchio e nel contempo ci fornisce gli esempi per entrare da artefici nella nostra storia, ci fa capaci di darci un senso di quel sacrificio che mai, le nostre impeccabili ragioni, ci consentirebbero ed il crocefisso rientra nella rete delle icone grandi e piccole che ci intesse la vita e come dice il neo cardinale Julien Ries, professore emerito di Storia delle religioni: ”Oggi abbiamo bisogno delle costanti del sacro: simboli, miti, riti“.
Nella nostra tradizione culturale conta l’immagine eidetica, l’icona della presenza, anche se, nel significato letterale, i greci definivano l’icona “riflesso della realtà in Dio”, quello stesso serpente di bronzo che Mosè innalzò nel deserto e non ci dovrebbe essere bisogno, come in altre, di interpolazioni scritturali, pertanto il crocifisso come emblema, rientra in tale alveo mentre non interessa che Gesù sia rappresentato con le braccia allargate in orizzontale come nella maggior parte delle raffigurazioni cristiane oppure diritte in verticale in continuità con le gambe come per i giansenisti, o comunque sotto le spoglie di un agnello accompagnato da una croce secondo l’iconografia paleocristiana, quando era infamante raffigurare un condannato a morte sulla croce e dopo o come risulta dalla “Prima lettera ai Corinzi” di Paolo skandalon, per cui la prima rappresentazione spregiativa della crocifis-sione sembrerebbe risalire a quel graffito inciso su un muro del colle Palatino a Roma, sembra del III secolo, in cui appare una caricatura del Crocifisso dalla testa d’asino con la scritta
“Alessameno adora il suo dio”.
Daniel Cramer nel suo “Emblemata sacra” del 1617, dice:”Maledetta era la morte in croce/agli occhi di Dio./Grata è ora/in virtù del giudizio dei morti pronunciato da Cristo”. Successivamente, in epoca bizantina, appare con grandi occhi aperti, per nulla sofferente, con il capo circondato da una aureola come la corona di un re, per lasciare poi posto, nell’XI sec., a un nuovo tipo con il corpo emaciato e il capo reclinato ricoperto, dal XII sec., da una corona di spine, per passare alla rivisitazione moderna di Giotto, quindi alle ulteriori di Raffaello, Leonardo e Michelangelo, per significare che la grazia è ristretta e pochi la ricevono. Ma il richiamo a Gesù non necessita di alcuna raffigurazione fisionomica e basterebbero per evocarne la presenza quell’impressione che il poeta agnostico Jorge Luis Borges lascia nella sua ultima raccolta di poesie “I congiurati,” con i versi:”La nera barba pende sopra il petto./ Il volto non è il volto dei pittori./ È un volto duro, ebreo. Non lo vedo/ e insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passo sulla terra”
Non molto tempo fa, si è tenuta a Torino, alla reggia di Venaria Reale un’esposizione sull’iconografia di Gesù che, se non altro, dovrebbe coinvolgere i cultori dell’arte, dal momento che vi appaiono una serie estesa di crocifissi grandi e piccoli, dalla monumentale croce d’argento del Pollaiuolo dal Battistero di Firenze, alle altre rinascimentali di Donatello e di Antonello Gaggini, ma anche crocifissi romanici, gotici, francesi tedeschi, catalani che raffiguravano piuttosto le torture subite da Gesù sulla croce ed italiani ed abbiamo l’ardire di immaginare che non sarà visitata soltanto da credenti sostenitori della auspicata presenza nei loghi pubblici.

Sempre la rappresentazione iconografica ci mostra in periodi storici successivi una crocifissione in cui il Cristo appare secondo diverse raffigurazioni, da quello del re glorioso e vincitore dell’Alto
Medioevo, a quella più umana del periodo gotico e del primo rinascimento fino all’espressione sofferente del tardo gotico. Ma, in definitiva, non importa neanche che sulla croce appaia la sagoma di
Gesù, dal momento che questa è solo una rappresentazione cattolica e non cristiana nel senso allargato, dal momento che valdesi, battisti e altre chiese evangeliche adottano la croce nuda, per sottolineare che Gesù è risorto.
Per Paul Claudel la croce del Salvatore era stata fatta con il legno dell’albero del bene e del male ed in ogni caso rappresenta l’”Albero di vita” come viene chiamato anche nell’Apocalisse e come tale appare su fonti battesimali romanici e sotto gli atrii-cimitero di tante chiese antiche, da cui deriva anche la “croce viva“ che si può vedere in un affresco del XVI secolo a Brunico in Alto Adige, i cui bracci sono decorati di rami verdeggianti. Questo tipo d’immagine si ritrova, del resto, anche nel
Nepal, senza aver per oggetto la stessa divinità, allorché per la festa in onore di Indra si vedono ovunque croci ricoperte di tralci di vegetazione.
Sant’Agostino, ma anche San Girolamo, parlano della croce come di un’indicazione dei punti cardinali a sostegno della “macchina del cielo” dalle parole di Firmico Materno nel suo “De errore profanorum religionum”. Per significare la composizione modulare della croce mi è capitato anche di sentire una battuta goliardica, ma esplicita, di un medico ateo mio conoscente:”Del resto la croce è fatta di due legni” riferendosi, autoironicamente, a se stesso ed al sottoscritto come due personalità sacrileghe che come tali danno forma ad un supplizio…
Il sacerdote teologo/filosofo indospagnolo Raimon Panikkar ma anche pensatore abbastanza libero, dice nel suo “L’Esperienza della vita - La Mistica”:”Croce non come simbolo di dolore o di sconfitta, e neppure di appagamento o di vittoria, ma come linguaggio di trasformazione e di
superamento delle categorie storiche nelle quali soprattutto l’Occidente moderno suole giudicare la ’concezione della vita’”.

Allo stesso tempo si può ricordare che la Chiesa d’Oriente, quella definita “nestoriana” dai propri avversari, a seguito dello scisma sulle due nature del Cristo, quella divina e quella umana, esibiva la croce nuda, priva del Suo corpo, non per rinnegare la Passione bensì, come nel Vangelo di San Giovanni, per andare oltre la crocifissione e vedervi la parusìa, la gloria futura e il corpo di luce. I seguaci di detta Chiesa contrassegnavano con tale croce tutto quello che incontravano e la diffusero anche presso i Mongoli, dove l’autoproclamatosi erede di Gengis Kahn, Möngke, ne favoriva l’esposizione ed i suoi stessi figli, pur non essendo battezzati, onoravano profondamente la croce stessa.
I Catari sembra che erigessero le loro croci nei cimiteri, dove venivano iscritte in un cerchio, come del resto il simbolo della croce come potere salvifico di Dio in Cristo, cominciò ad apparire sui sarcofagi dopo l‘editto, già citato, di Costantino del IV secolo. Ma per coloro che ne volessero negare, ad oltranza, il valore cristiano, basti ricordare il significato simbolico della croce a cui lo scrittore e poeta portoghese Ferdinando Pessoa attribuisce un‘origine taoista, completata dalla figura di un uomo nella cosmogonia arcaica e quello della croce ansata o Tau, nei culti degli antichi Egizi, senza dimenticare il valore della croce per l’Islam nonostante le manipolazioni del Corano che, per sottrarre all’umiliazione il “profeta” Gesù, lo rimpiazza con un sosia (Giuda Iscariota? Simone di Cirene? Un ebreo?) sulla croce e ciò basta per riconoscerne l’appartenenza alla storia delle credenze umane e quindi la sua sacralità non solo ideologica.
Nello Yoga, la croce è il simbolo della unione salda e perfetta dell’anima e della natura ed anche certe effigi dedicate al Buddha lo rappresentano come pilastro cosmico ed albero della vita, la cui natura viene attribuita altresì alla croce. Per citare ancora Mircea Eliade, non si può trascurare il significato che egli attribuisce al termine “ierofania”, come manifestazione del sacro in un oggetto profano.
Hermann Hesse nel suo saggio “Klein e Wagner” sostiene:“Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”! Del resto, a chi vuol negare l’esistenza storica di Gesù sulla base della ricostruzione delle sue caratteristiche somatiche non corrispondenti alla sua rappresentazione sacrale, va ricordato, come testimoniato da autorevoli recensori, che le trasposizioni figurative ieratiche intendono proporre l’immagine interiore, cioè l’essenza spirituale del soggetto, non accessibile all’occhio corporeo bensì a quello della contemplazione, come del resto avviene anche nell’arte cristiana fino alla fine del vero Medioevo. Forse è il caso di assimilare a questo spirito, anche se del 1965, quel Cristo che lo scultore belga Wim Delvoye ha proposto come opera figurativamente contorta e poco individuabile di primo acchito, per integrarlo nell’elica del Dna e anche quel “viso del Cristo che da metallico si fa strazio umano” che lo scultore algerino-francese Adel Abdes-sembed realizzò nel 1971.

Non dimentichiamo tuttavia le fasi storiche del movimento iconoclasta e delle sue fasi sviluppatesi sotto l’imperatore Leone III, tra il 726 ed il 787 e sotto suo figlio Costantino V, tra l’813 e l’843, il quale respinse anche il culto dei santi pur partendo da presupposti ideologici cristiani, sintetizzati nella sua seguente dichiarazione:”Colui che segue un’immagine di Cristo, dimostra di non avere penetrato la profondità del dogma dell’unione inseparabile delle due nature del Cristo”; quindi non scandalizziamoci, più di tanto, per certe posizioni dei non cristiani! San Paolo aveva visto nell’intersezione dei due bracci della croce l’annullamento della separazione fra cielo e terra.
Tanto per volgarizzare il riferimento, sarebbe come, allorché diversi anni fa, un partito politico adottò l’immagine di Garibaldi come proprio simbolo elettorale, la Pubblica Istruzione e gli storici avessero deciso di occultarne l'impresa e di negarne la divulgazione!
E mi si perdoni, da chi la considera tale, l'irriverenza, che secondo un principio pluralistico e di par condicio, la stessa visibilità dovrebbe essere riservata ad altre icone della virtù umana, come Buddha ed altri, le cui gesta meritano memoria immortale nei luoghi di abituale frequentazione
pubblica e non soltanto in quelli reconditi, adibiti alla venerazione esclusiva e nei pàntheon. Se è vero che esiste una tradizione religiosa proibitiva di rappresentare icasticamente la divinità perché trascendente, è anche vero che Gesù era uomo con sembianze umane e come tale la sua immagine è raffigurabile, mentre Buddha, pur con un’insita natura divina come tutti, aveva le sue radici in questo mondo.
Di recente mi è capitato per le mani un libro intitolato Kokoro (il cuore delle cose), che il suo autore, Lafcadio Hearn, a me fino ad allora ignoto, aveva scritto come resoconto di un suo soggiorno in Giappone alla fine del XIX secolo e che mi ha colpito anche per la seguente frase:”Ogni immagine plasmata dalla fede umana rimane come il guscio di una verità eternamente divina; e anche il guscio in sé può contenere una sua forza spirituale”… Richiamandosi al senso cosmico dei simboli religiosi, lo stesso Mircea Eliade, per quanto non inquadrabile in qualsiasi professione confessionale, aveva sperimentato il simbolo come assoluto che si incarna nella realtà profana e quotidiana, diversamente dai Templari che si dichiaravano cristiani non li erano certamente nel senso comune, poiché nei loro riti iniziatici, sembra che ripudiassero il Cristo visibile e ne testimonierebbe una deposizione di certo fratello Gérard de Patagio riferisce l’affermazione del suo confratello Baudoin con queste parole: “Non lo credo, è solo un pezzo di legno. Nostro Signore è nei cieli”…

Peraltro questo pezzo di legno destinato alla crocifissione apparteneva principalmente all’esecuzione destinata dai Romani a coloro che erano ritenuti estranei alla loro discendenza e che, essi, avevano
giudicati colpevoli. ”Non togliete quel crocifisso” titolò un suo articolo sull’ “Unità” già nel 1988, a seguito di uno dei tanti tentativi di far sparire la croce dai luoghi pubblici, Natalia Ginzburg, non certo una cattolica praticante. Appartiene alla letteratura, anche se sa troppo di anatema, l’episodio secondo cui un ufficiale superiore della SS, avendo accompagnato la moglie in clinica per il parto e avendo notato l’immagine di Gesù sopra il letto, intimò ad una religiosa che assisteva:”Tolga quell’immagine da lì, non voglio che mio figlio quando nascerà veda come prima cosa il figlio di un ebreo”. La religiosa non poté far altro che riferire l’ingiunzione alla sua Superiora, la quale dopo la nascita telefonò al padre informandolo:“È nato suo figlio, Herr Obersturmführer! Sua moglie sta bene e anche il bambino è sano. C’è soltanto una cosa. Il suo desiderio è stato esaudito: il bambino è nato cieco”.
Il “comunista” Bertolt Brecht aveva scritto in altra occasione:”Vieni, buon Signore, ci sei davvero necessario” quasi a voler contraddire una sua scettica affermazione di un diverso momento! Il poeta palestinese Muhammad Rajab al-Bayumi, dice, fra l’altro, in una sua poesia:”E’ Gesù, chi può pensare di eguagliarlo?”, così come un altro poeta, l’iracheno Badr Shâkir al-Sayyâb (m. 1964) ha lasciato la poesia che merita di essere riportata integralmente:”Ero all’inizio, e al principio era il povero/ Sono morto perché si mangi il pane nel mio nome,/per essere seminato nella stagione giusta/ Quante vite vivrò! Al fondo di ogni vuoto,/eccomi divenuto futuro e semente,/generazioni di uomini: in ogni cuore scorre il mio sangue,/o almeno qualche goccia…”.
Non aboliamo perciò i simboli di ciò che, almeno, conferisce dignità alla razza umana e diffondiamo inoltre il messaggio di cui sono portatori; di certo, non nuocerà a nessuno, poiché l‘adesione al messaggio di Gesù è condivisione dell‘essenza della convivenza armonica! Del resto chi potrebbe
essere più “vivo” nella nostra storia e nei nostri riferimenti ideali, in altri campi, di un Omero, di un Pitagora o Socrate, di uno Shakespeare, di un Fulcanelli? Ma chi erano (caso mai siano mai esistiti)?

(Autore: Costanzo Ajello)

Argomento: Crocifisso si, crocifisso no!

Nessun commento trovato.

Nuovo commento