Teglio: i segreti e le meraviglie di Palazzo Besta

                                                                         (Marisa Uberti)

                                                                     Una dimora filosofale

 

                              

 

Arrivare a Palazzo Besta è agevole. Da Sondrio si imbocca la strada statle 38 (dello Stelvio), oppure quella panoramica dei castelli, tratto da Chiuro a Teglio molto panoramico. L’edificio è il monumento più importante della provincia di Sondrio ed è una delle dimore signorili ed “alchemiche” pù interessanti che ci sia stato possibile vedere fino ad oggi. Il maniero sorge all’imbocco del paese e colpisce immediatamente per la sua architettura, arricchita da decorazioni su tutta la facciata. Una piccola piazzola consente il parcheggio delle auto, mentre a poche decine di metri ci guarda un po’ enigmatica la chiesa di S. Lorenzo, la cappella di palazzo, potremmo dire, che conserva alcuni sepolcri della famiglia Besta, oltre ad affreschi del XVI secolo attribuiti a Fermo Stella, tra cui una raffigurazione del  fortilizio militare , già in degrado, che è una rara e preziosa testimonianza dell’epoca[1].

 

                                        

                                                             La chiesa di San Lorenzo

 

Purtroppo la chiesa apre in occasioni speciali e pertanto non abbiamo potuto visitarla, essendo chiusa. Notizie del palazzo risalgono al XIII secolo (1240), quando probabilmente in situ sorgeva il castello medievale. Oggi sappiamo che Palazzo Besta comunicava, attraverso una rete di cunicoli, con il dosso dove sorgeva la fortificazione militare, di cui resta la Torre de li beli miri e la chiesa altomedievale di Santo Stefano (di cui abbiamo parlato in altra sezione).

 

  • I Besta

 

Dalla fine del 1300 alla prima metà del 1400 circa, i proprietari attuarono la trasformazione in dimora residenziale;  fu Azzo I Besta a dare impulso ai lavori, attorno al 1490, in un periodo fiorente della sua nobile casata, inserita nei commerci economici della Valtellina che, pure, conobbe in detta epoca un periodo particolarmente florido. La prima dimora doveva avere merlature e finestre ad arco ogivale, i cui rimembri vennero alla luce durante opere di restauro realizzate ai tempi di Azzo II, al quale si deve l’aspetto odierno dell’apparato decorativo interno. Sulla nobile famiglia non è che circolino fiumi di notizie, anzi[2]. I documenti, poi, non parlano mai della residenza di famiglia.

Da un ramo della casata discese il medico neurologo Carlo Besta (1876-1940), cui è intitolato un noto nosocomio milanese.

I documenti citano la famiglia di Teglio almeno dalla metà del 1300 quali esimi rappresentanti dell’arcivescovo di Milano, per conto del quale probabilmente amministravano le terre di proprietà di quest’ultimo[3]. A quel tempo il prelato esercitava infatti i diritti su quell’area della Valtellina; nel XIV secolo tale funzione dei Besta venne riconfermata da un atto notarile, in cui si cita Mastayni de Besta. Sotto il dominio degli Sforza (1453) venne concesso il libero passaggio ai fratelli e ai figli di Mastaino, chiamati da Francesco Sforza “diletti nostri” (Aloysius, Johannes, Jacobus, Matheus, Jeronimus et Azonus fratres et filii quondam nobilis viri Mastayni de Besta de Tilio). Tra di essi, Azonus (Azzo I) entra in gioco nella trasformazione del castello medievale a dimora residenziale. Egli, vicario del podestà di Teglio, si distinse in modo particolare e quando morì (1508) nominò suo erede il piccolissimo figlio Azonus II (Azzo II) che, con molta abilità,  riuscì ad acquistare dal cardinale Ippolito d’Este 584 appezzamenti di varia estensione che spettavano all’arcivescovo di Milano, guadagnandosi in tal modo prestigio e potere. Venne nominato luogotenente dal podestà di Teglio Giorgio Lutzen e dal suo successore, Gabriele Haiens. In quel periodo Azzo II si dedicò ai lavori di restauro e di decorazione degli interni del Palazzo Besta. Apparato decorativo che, come vedremo, non fu certo lasciato al caso ma denota una cultura di elevato livello e una profonda ricerca della Conoscenza. La moglie di Azzo II, Agnese Quadrio, era una donna molto colta e raffinata. Per il suo mecenatismo arrivarono alla dimora tellina letterati, filosofi e artisti. Non ultimo, ci dev’essere stato anche lo zampino del tutore nonché patrigno di Azzo II, Andrea Guicciardi, esponente di spicco dell’Umanesimo valtellinese, che ricoprì la carica di Rettore dell’Università di Pavia (1498)[4].

 

                            

                        Curioso motivo scolpito sul capitello dello stipite destro del portale

 

 

L’uomo aveva sposato Ippolita de’ Albertiis (o degli Alberti), rimasta vedova di Azzo I, crescendo in tal modo suo figlio nella cultura umanistica di cui il Guicciardi era degno rappresentante.  L'umanista morì il 6 giugno 1557 all’età di 86 anni e venne sepolto nella cappella della famiglia Besta, cioè nella chiesa di S. Lorenzo di fronte al palazzo, in un sarcofago contornato da simboli che ne ricordano la sapienza. Solo pochi anni più tardi morì Azzo II, a 55 anni, il 30 novembre 1562, lasciando due eredi, Gerolamo e Carlo. Fu quest’ultimo a far eseguire le decorazioni del secondo piano (1580) e a risiedere nel palazzo, mentre Gerolamo stabilì la propria residenza a Bianzone.

La dimora continuò ad essere dei discendenti della famiglia Besta fino al 1726 (poi questo ramo proveniente da Azzo si estinse); passò al console Pietro Morelli, il quale operò alcune modifiche interne. Passata poi ai Parravicini e quindi ai Juvalta, venne smembrata alla fine del XIX secolo tra diverse famiglie di contadini, che ne fecero la propria abitazione. Alcune parti vennero adibite a stalla e fienile! Nel 1911 il palazzo, strappato all’abbandono, venne rilevato dallo Stato italiano, che ne iniziò i restauri tra il 1912 e il 1927.

Nel 1965 la Soprintendenza aprì, al piano terra, l’ Antiquarium Tellinum, nato dall’impegno degli archeologi Maria Reggiani Rajna e Davide Pace. Oggi il palazzo è statale ed è parte del patrimonio artistico gestito dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della regione Lombardia.

 

  • Simboli di facciata

 

Al cospetto della facciata, rivolta a oriente, rimaniamo in silenzio e osserviamo, lasciando spaziare lo sguardo dall’alto in basso, da sinistra a destra. Superiormente, appena sotto il tetto, si possono individuare degli oculi alternati a lunette affrescate con stemmi araldici (appartenuti ai vari proprietari della dimora che furono i Besta, i Guicciardi, i Quadrio, i Parravicini e altre famiglie gentilizie imparentate); queste lunette sono “a vela”, cioè sormontate da elementi architettonici triangolari con la punta rivolta verso l’alto, che si alternano ad elementi triangolari con la punta rivolta verso il basso, terminanti in eleganti motivi dipinti in rosso e poggianti idealmente su una fascia bordata di rosso.

Sulla facciata, costituita da corsi regolari di blocchi chiari, rimane un vacuo residuo di quello che doveva essere un gruppo di stemmi riuniti. Le belle finestre superiori sono sormontate da timpani affrescati con dipinti parzialmente visibili; le elaborate inferriate in ferro battuto sono seicentesche (altre finestre, più piccole e non semplici grate, si trovano al piano terra).

Al di sotto corre, per tutta la lunghezza della facciata, una fascia a scacchiera la quale si interrompe in corrispondenza dell’architrave del portale d’ingresso, per lasciare posto ad una vivace raffigurazione iconografica. Questa è costituita, lateralmente, da due stemmi mentre un terzo, forse un tempo inghirlandato, è al centro; esso appartenne ad Azzo II (un leone che poggia una zampa sull’abete) ed è retto da due putti (quello di destra è abraso).

Il portale cinquecentesco è inscritto in una struttura formata da due paraste che sostengono la trabeazione; risulta incorniciato da stipiti in marmo bianco. C’è un motto sull’architrave che recita Novit Paucos Secura Quies (Una sicura quiete è per pochi). Tra le prime due e le ultime due parole è scolpito il trigramma cristico JHS, in un tondino; a sinistra –sempre in un tondo- è raffigurata in rilievo una Fenice mentre a destra (con la stessa tecnica) è ritratto un Pellicano che allatta i piccoli. Animali simbolici, non serve essere esperti di ermetismo per riconoscerli. La mitica Fenice che risorge dalle proprie ceneri è una delle più arcaiche metafore utilizzate per condensare il concetto di ciclicità, di morte e di rinascita; per il Filosofo essa rappresenta la fase finale del processo alchemico e gli alchimisti, in questo uccello, riposero il significato della spiritualizzazione completa, della rinascita della personalità, risultato finale della Grande Opera. Il Pellicano è usato in ambito cristiano per alludere all’amore paterno e al sacrificio di Cristo, ma anche nell’Alchimia, laddove diventa il geroglifico della forza spirituale che alimenta il lavoro del Filosofo che con grande amore e sacrificio conduce la ricerca della perfezione. Nell’iconografia alchemica il Pellicano simboleggia un particolare vaso nel quale veniva riposta la materia liquida da distillare.
La simbologia del Pellicano fu impiegata in molteplici significati, fra cui quello della Pietra Filosofale, dell’interesse non egoistico all’ascesa verso la purificazione; nel rito massonico scozzese l’uccello indicava il grado di Rosacroce, anticamente definiti «Cavalieri di Rosa Croce»[5].

 

                               

                                           Il portale e le sue decorazioni simboliche

 

Questi primi elementi esterni ci hanno indotto a riflettere sui committenti, che potevano non essere estranei all’ermetismo di cui era, tra l’altro, infarcita la loro epoca (specialmente tra XV e XVI secolo), come abbiamo più volte documentato anche nei nostri reportage di visita a dimore o castelli rinascimentali. L’architrave è arricchita, inferiormente, da una sorta di duplice greca a motivi di ovuli e sferette; poggia quindi su due capitelli lateralmente, in cui si trovano due elementi circolari per parte. Si tratta di triplici anelli concentrici (due a destra e due a sinistra). L’archivolto del portale è affiancato da due oculi ciechi, forse un tempo dipinti, come lo sfondo, che presenta una tonalità tra il giallo e l’arancione (tuttavia non si distinguono precise raffigurazioni). Sotto l’archivolto del portale troviamo una classica serie di soggetti decorativo-simbolici fitomorfi e una “girandola”, una sorta di ruota idealmente in movimento. L’arco poggia da entrambi i lati su stipiti squadrati in cui distinguiamo tre parti: un capitello, il fusto e la base. Troviamo elementi scolpiti su tutte le facce di questi stipiti e, molto più piccole, anche due raffigurazioni (una a destra e una a sinistra) nella parasta superiore:

 

                    Piccolo tondo con profilo di uomo (la freccia indica la localizzazione)

 

Sul sedile di pietra addossato alla facciata d'angolo ci sembra di riconoscere una consuntissima Triplice Cinta, la proponiamo (con il beneficio del dubbio).

 

                                     

                                                                 Una Triplice Cinta?

 

  • Novit Paucos Secura Quies: dove portano le nostre ricerche

 

Soffermiamoci meglio sulla frase Novit Paucos Secura Quies che è incisa sull'architrave del portale d'accesso. Perché sceglierla? Che valore rivestiva, per i Besta? Da dove l'avevano attinta? Abbiamo svolto una breve ricerca e abbiamo scoperto alcune cose interessanti. Oltre che ad essere talvolta apposta come motto sulle meridiane, essa è presente nell’ Hercules furens (in italiano Ercole furioso) di Lucio Anneo Seneca (4 a. C. - 65 d.C.),  una tragedia scritta forse nella sua maturità e ispirata da un’opera di Euripide intitolata Eracle (altro nome di Ercole). Nell’opera, che si svolge a Tebe, si sviluppa un dramma inaudito, causato dalla gelosa Hera/Giunone moglie di Zeus/Giove, dio dell’Olimpo e padre naturale di Ercole. La dea ha giurato vendetta nei confronti di quel figlio illegittimo e decide di farlo impazzire, così da indurlo ad uccidere la moglie Megara e i propri figli (che gli paiono mostri). Ravvedutosi troppo tardi della sua furia assassina, quando la strage è compiuta, ad Ercole non resterà altro che provare orrore per ciò che ha fatto cercando il suicidio ma viene fermato da Teseo che lo convince ad andare con lui ad Atene a purificarsi. Nel primo coro (v. 125-204)[6] Seneca espone una riflessione ideologica della vita umana; sul declinare della notte e del sorgere del sole, sull’inizio della giornata lavorativa di contadini e pescatori, il cui duro lavoro è visto come espressione di una vita felice, e tale serenità è allargata anche agli animali. Seneca contrappone questi lavoratori a coloro che conducono una vita vacua. Proprio parlando di costoro (v. 162-191), l’Autore fa il confronto con i pochi che si distinguono, che vivono in “modo giusto”, i rari, rarissimi “sapientes”, ed è proprio qui che troviamo (v. 174-178) la frase che ci interessa:

 

novit paucos, (175)

secura quies, qui velocis

memores aevi tempora numquam

reditura tenent. dum fata sinunt,

vivite laeti

 

Solo questi soggetti, considerati unici, sanno “attuare se stessi” nel presente loro assegnato e non disperdono gli sforzi nella vana ricerca di un inafferrabile futuro[7].

Può darsi che i Besta, signori illuminati, abbiano proprio attinto un frammento di questo versetto dell’opera di Seneca, applicandolo a loro stessi, auspicando di essere “tra i pochi sapienti” contrapposti ai vacui, ostentando in tal modo una duplice caratteristica verso i visitatori: la loro cultura classica e la volontà di distinzione che certamente richiamava una forma di elevato rispetto.

 

             

 

Abbiamo trovato un ulteriore collegamento, quanto meno curioso. E’ stato grazie alle minuziosissime descrizioni contenute nel volume di Richard Warner (1763-1857) intitolato “A tour through the northern counties of England, and the borders of Scotland” del 1802 che abbiamo potuto risalire a questa vera chicca. Egli, nel volume II della propria opera, imperniata su un viaggio nelle contee del nord dell’Inghilterra e della Scozia, racconta di essere approdato nella penisola di Cartmel (attualmente nella Cumbria, Lancashire) e di essere stato accolto nella dimora di Lord Frederik Cavendish. Warner descrisse ciò che vide, dapprima il parco, poi la casa, della quale inizia a citare cita uno per uno i ritratti (mezzibusti) presenti nella hall, quindi nella sala da pranzo dove, tra gli altri, cita “un vecchio ritratto che si dice essere Lord Douglas, con questa iscrizione: Novit paucos secura quies. Aetatis suae XXII. A.D. MDXI”. Si tratta quindi del ritratto di Lord Douglas quando aveva 22 anni, nell’anno 1511. L’iscrizione che corredava, per testimonianza oculare di Warner, il ritratto del giovane nobile è identica a quella presente sull’architrave di Palazzo Besta a Teglio. Chi fosse Lord Douglas, che relazione avesse con Lord Cavendish (ammesso ne avesse una), lo ignoriamo. Ma la frase con cui il suo ritratto fu corredato fa riflettere, alla luce di quanto abbiamo detto poc’anzi.  Se, come abbiamo ipotizzato, essa è in qualche modo collegata all’opera di Seneca e ai “sapienti”, a coloro che si distinguono dagli altri, allora anche Lord Douglas si sentiva rappresentato da quel motto. Coincidenza, visse anch’egli nel medesimo periodo (facendo i calcoli, se nel 1511 aveva ventidue anni, significa che era nato nel 1489). Verrebbe molta voglia di approfondire, di cercare possibili collegamenti, di conoscere se e quanto sia diffuso l’uso di quella frase in quel periodo e nelle colte elite. Esistono altre fonti letterarie celebri in cui essa è presente? Magari è sotto i nostri occhi e più usata di quanto si pensi.  D’ora in avanti dunque si deve aguzzare la vista, cari lettori!
Bisogna anche chiedersi, in seconda istanza, quanto fosse nota la tragedia di “Hercules furens” a quel tempo e se –sempre per la famosa allegoria alchemica- non vi fosse in quell’opera qualche rimando ermetico[8] che molto piaceva ai signori illuminati. Certo è curioso trovare questa precisa frase (Novit paucos secura quies) scolpita sul frontone della nobile dimora di una valle alpina italiana e sul ritratto di un lord inglese vissuto nel 1500, e ancora conservato tre secoli dopo nella villa di lord Cavendish nella penisola di Cartmel.

 

                                     

 

  • Proseguendo la visita

 

A destra del portale si apre un altro accesso, munito di cancellata, forse realizzato in epoche più recenti. L’architrave è avulsa dal contesto, nel senso che sembra provenire da un monolito di spoglio ed appare diversa dagli stipiti, sia per materiale che per lavorazione.

Nella parte a sinistra del portale, quella che piega ad angolo, c’è poi l’ingresso di servizio, che immette nell’area esterna dove c’erano i locali di servizio (cantine, stalle). Sotto una sorta di piccolo loggiato, sono conservati alcuni reperti archeologici che si possono vedere durante la visita guidata. La dimora è circondata da un ampio parco.

Ma entriamo ora, accolti dalla cortese guida. Il prezzo d’ingresso è più che abbordabile (2 euro), per le meraviglie che si incontrano. Per una questione cronologica, daremo la precedenza alla descrizione dell’Antiquarium Tellinum (clicca per leggere a parte), una sorta di piccolo ma importantissimo Museo Archeologico, dove sono riparate le interessantissime steli preistoriche rinvenute nel territorio. In realtà lo abbiamo visitato per ultimo.

 

  • Interni

 

L’ingresso al Palazzo suscita immediatamente un senso di indefinibile mistero. A sinistra la monumentale scala, a destra l’androne conduce nel primo dei numerosi gioielli della dimora: il cortile interno a due loggiati sovrapposti. Esso è impostato su un quadrato delimitato da eleganti colonne su cui poggiano arcate a tutto sesto. Tra la muratura e il cortile viene così a definirsi, al pianterreno, una serie di portici con volte a crociera. Singolare il pozzo, di forma ottagonale, che è situato in posizione non centrale ma nell’angolo N-O. La decorazione consta di pannelli in cui Azzo II Besta è raffigurato con i familiari e vi si trova anche una scritta che lo identifica: Azzo Secundus 1539. La data è probabilmente da attribuirsi al termine dei lavori da lui intrapresi nella dimora.

 

                                                 

 

Strutturato quasi come un piccolo chiostro, un Hortus conclusus, ma su tre soli lati, mostra un parapetto arricchito di un fregio policromo su cui si vedono satiri, sirene, putti che reggono medaglioni con i possibili ritratti di Azzo I Besta e la consorte Ippolita de’ Albertiis; il figlio Azzo II con la moglie Agnese Quadrio; altre due coppie di cui non è accertata l’identità. Questa sorta di fregio marca la divisione tra loggiato inferiore e superiore.

Saliamo lo scalone e rimaniamo folgorati. Prima di proseguire però ci viene svelata una curiosità: appena sopra l’architrave della porta, all’interno, la guida fa notare un rigonfiamento appena percettibile: le analisi condotte hanno confermato la presenza di un uccello. Si tratta del falcone, compagno di caccia di Azzo II, che volle dargli degna sepoltura in questa (insolita) collocazione. A testimonianza, si trovava un affresco –oggi deteriorato- con una scritta che decantava le imprese del falco, cui veniva fatta anche una dedica.

Dalla galleria porticata del primo piano si ammira qualcosa di veramente unico e sorprendente: le pareti sono interamente ricoperte di scene realizzate a monocromo, a tempera con la tecnica del chiaroscuro. Si succedono –senza alcuna interruzione o partitura - episodi tratti dall’opera di Virgilio Le Storie di Enea e figure appartenenti alla mitologia classica (divinità dell’Olimpo come Giove e Venere; riconoscibile anche Mercurio/Hermes dal caratteristico attributo, il Caduceo). Il racconto si legge partendo da est e procedendo verso destra: nella prima scena Enea, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio, fugge da Troia, nell’ultima Enea giunge sui lidi laziali. Anche nelle Eneide scelte per decorare questo spazio architettonico così importante, centrale, possiamo ravvisare un substrato iniziatico, quello del "viaggio", un percorso fatto di prove da superare per passare da un livello ad un altro, attraversando Inferi ed esperienze che porteranno al raggiungimento della meta.

Si ritiene che sia il ciclo pittorico più antico del palazzo. Su tutto furono posti a vigilare quattro draghi alati in ferro battuto, impiegati come doccioni/gargoilles, in un possibile coerente tema di impronta ermetica voluto dai committenti. Questo cortile è il centro del palazzo, su cui convergono le sale, una zona molto importante. Vi è inoltre un attento studio del sistema di drenaggio delle acque meteoriche, che dalla grondaia scendono verso il terreno e, tramite una croce sul giardino interno, vengono raccolte nel tombino centrale della corte[9].

Ma quale architetto lo realizzò? A chi si affidarono i Besta? Non è noto. Riguardo al pittore, si ritiene che possa essere Vincenzo de Barberis, artista bresciano attivo in Valtellina nella prima metà del Cinquecento (1539-1551), o Fermo Stella (autore di alcuni dipinti presenti nella chiesa di S. Lorenzo, la cappella del palazzo).

Una parentesi più folcloristica (che riguarda anche il Salone d’Onore, come vedremo) ha visto protagonista questo ciclo pittorico, mettendo in contrapposizione due ricercatori, Riccardo Magnani e Diego Cuoghi, diatriba finita anche sul “Giornale di Sondrio[10] e che tira in ballo gli…ufo. Magnani ha ipotizzato che quella che dovrebbe essere una Belides (una delle Danaidi, abitatrici dell’Ade) possa essere un’entità aliena, tanto somigliante al canone classico con cui gli E.T. ci vengono presentati. Il Cuoghi ha confutato il tutto (come si può leggere negli articoli cui il link rimanda). In questa scena Enea scende nell'Ade con la Sibilla Cumana.

Il loggiato del primo piano, sviluppato su tre lati aventi otto arcate ciascuno, denota la perfetta armonia dell’architettura, sicuramente voluta, ritmata sugli archi e sulle colonne e resa eccelsa dagli effetti chiaroscurali ottenuti. Passiamo in diverse sale del primo piano, quello nobile, le cui stanze principali si trovano in corrispondenza della facciata orientale. Ci aspettiamo di trovare temi in odore di esoterismo, visto quanto abbiamo ammirato fino a questo momento. e non rimaniamo disattesi, infatti tutte le sale rimandano a temi mitologici e simbolici, che nascondono sottili messaggi alchemici. Troppo poco il tempo che si resta nelle stanze e nei saloni per potersi permettere un’adeguata analisi. Ci dobbiamo accontentare.

Preceduto da un portale di pietra, accediamo al Salone d’Onore, quello più importante e vasto (15 m di lunghezza), riccamente decorato. Qui si trova la copia del camino originale, che venne asportato e mandato in Inghilterra (è in deposito al Victoria and Albert Museum). E’ adorno di simboli e, sopra di esso, sulla parete si trovano gli stemmi  delle Tre Leghe (Lega Caddea, Lega Grigia e Lega delle Dieci Giurisdizioni),  di cui Teglio faceva parte, come abbiamo detto. Qui sarebbe stato infatti procalmato il "Patto di Teglio"  il 27 giugno 1512. L’ultimo stemma a destra ritrae un Homo Selvadego e la guida ci spiega che esso era il simbolo della Lega delle Dieci Giurisdizioni, che mutò poi lo stemma stesso (v. link collegato). 

 

                                   

 

Numerosi medaglioni con i ritratti di personaggi non meglio identificati, tra i quali forse figurano anche appartenenti alla famiglia Besta, occhieggiano da tutti i lati del salone. Una donna dai seni nudi, certamente impudica per i tempi (ma anche oggi verrebbe ritenuta tale), è inserita tranquillamente tra gli altri. Chi era questa donna? Sotto i medaglioni, sono presentate scene tratte dall’ Orlando Furioso. Ludovico Ariosto, autore dell’opera, pubblicò la versione definitiva nel 1532, ragion per cui questi dipinti dovrebbero essere posteriori a quella data[11]. Ma ciò che sembra importante è il carattere simbolico delle raffigurazioni, utilizzate anche da altri nobili per le loro residenze “illuminate”. C’è poi una nota più “folcloristica”, cui accennavamo prima quando abbiamo visto la scena de L’Eneide, e che torna a tirare in ballo strane presenze aliene (stavolta dei dischi volanti, sotto le mentite spoglie di fondine di minestra rovesciate). La scena “incriminata” sarebbe quella della Luna, una delle più celebri del poema dell’Ariosto, quella in cui Astolfo (paladino di Carlo Magno ed eroe che compie imprese mirabolanti) si reca sulla Luna per cercare il senno perduto di Orlando che, pazzo d’amore, lo ha perso. Sul nostro satellite il cavaliere trova tutto ciò che sulla Terra si è perso,  ritroverà in un’ampolla il senno e la riporterà a casa.

L’ Orlando Furioso appare, nel complesso, la metafora di una ricerca iniziatica e densa di pericoli e prove, al pari delle Metamorfosi di Ovidio o alle “Storie di Enea” immortalate tutte in questo palazzo (come in altre dimore “colte” del periodo). Si hanno in questo salone 24 episodi dell’opera dell’Ariosto che celebrano le virtù, condannano i vizi, incitano all’elevazione spirituale e alla corrispondenza magica tra Cielo e Terra. La lettura inizia a ovest (a sinistra, entrando), dove non ci sono finestre. Si inizia dalla storia della malvagia Gabrina, contrapposta alla virtuosa Ginevra; poi le vicende di Ruggero e Angelica e i malefici effetti per i quali Orlando perde il senno.

 

Sul soffitto di questo salone si trova un’opera del XVIII secolo, avente per tema “La Regina di Saba ricevuta da Re Salomone", affresco di Giuseppe Prina.

Il Salone d’Onore è collegato, a settentrione, ad una sala magnifica rivestita di pino cembro, con soffitto a cassettoni che presenta motivi a triplice quadrato concentrico (nel mezzo si trova lo stemma della famiglia Morelli che, come abbiamo visto, detenne per qualche tempo il palazzo), e alle pareti una stua[12] verde cinquecentesca. Era questa una delle sale più fredde che, grazie ad una monumentale stufa (detta “pigna”) divenne calda e accogliente (e “particolare”). Un piccolo ballatoio esterno mostra scritte graffite o a sanguigna con sigle, frasi, date dal 1529 in poi, ritenute autentiche dell’epoca. Si scoprono così alcuni spaccati di vita quotidiana, costituendo una sorta di “archivio”!

Ricordiamo la curiosa sala dalla caratteristica volta “a ombrello” a sedici vele decorate con motivi geometrici azzurri e marroni,  che fu ricavata nel vano quadrato della torre medievale di S-E. Bei sedili di pietra sottostanno alle finestre.

Raggiungiamo un autentico gioiello (un altro, poiché qui è tutto un susseguirsi di magie artistiche): la “Sala della Creazione”. Difficile trovare parole adatte e come abbiamo detto, il ricordo non resta nitido senza delle immagini cui poter fare riferimento, ma certamente è uno di quegli ambienti che non può essere dimenticato! Questa sala, dalle dimensioni non vaste ma adeguate, colpisce per quanto è raffigurato sul soffitto: una “mapa mundi”, in cui salta subito all’occhio una “terra Australis” dipinta in verde che, è scritto in basso, è una terra non del tutto conosciuta e vi è una data, 1499 (“Terra Australis recenter inventa anno 1499 sed nondum plene cognita”). Troppe discussioni ha generato questo dipinto, da quando (pochissimi anni fa) è stato portato all'attenzione degli studiosi e degli appassionati. Sono stati condotti studi seri che hanno portato a considerare che questa interessantissima mappa sia stata copiata da  una carta di Caspar Vopell del 1570; tra le due vi sono sovrapposizioni pressochè perfette e corrispondono, dicono gli esperti, in ogni particolare.

 

                              

                     L'interessante mappa geografica dipinta sul soffitto della "Sala della Creazione"

 

 

Attorno a questo mappamondo si dispiega il ciclo della Creazione veterotestamentaria: sette riquadri con la “Genesi della Luce”, la “Separazione delle Acque”, la “Creazione degli Animali terrestri, dei Pesci e degli Uccelli”, la “Creazione delle Stelle”, ed in ultimo, la “Creazione di Adamo ed Eva”. Dio non viene mai rappresentato in sembianze umane ma attraverso fasci di luce. Sopra il camino il caos, una Torre di Babele dipinta secondo i canoni usati dagli artisti del tempo; è parte delle undici lunette di cui ricordiamo la Cacciata dal Paradiso Terrestre. Il Diluvio Universale, l’Arca di Noè, l’Ebbrezza di quest’ultimo. Certamente temi di meditazione e riflessione per i più colti, coloro che non si fermano alla mera valenza letterale ma utilizzano un diverso livello di comprensione, caro agli alchimisti, che hanno estrapolato dal testo biblico il messaggio universale riconducibile alla realizzazione della Grande Opera.

Due splendidi planisferi destano grande meraviglia: uno accanto all’altro, mostrano l’uno l’emisfero boreale con le costellazioni zodiacali e l’altro l’emisfero australe, sempre con lo Zodiaco. Ma questi due planisferi presentano tante particolarità, che sono state messe in evidenza in modo eccellente da Felice Stoppa, quindi non possiamo aggiungere altro. Togliere gli occhi da quel soffitto è dura, gli affreschi voluti dai Besta ci hanno ammaliato, portandoci letteralmente in sconfinati spazi siderali dove la magia, la scienza, il mistero profondo si intrecciano meravigliosamente con la vita segreta dei Besta, quella -perlomeno- che non condividevano con tutti.

 

        

 

Troppe domande si sono accese in noi, nell’immediato, alle quali chiaramente la guida non ha avuto la possibilità di rispondere, quindi quando siamo tornati a casa, con questi misteri cui volevamo dare delle soluzioni, abbiamo iniziato a cercare e a cercare, fino a quando alcune risposte pensiamo di averle trovate[13]. Attigue alla Sala della Creazione vi sono due piccoli vani di servizio, che vengono identificate come la sala da pranzo.

Al primo piano ci sono altre stanze: sul prospetto ovest quelle estive per i due coniugi (ciascuno aveva la propria), una chiamata “Settecentesca” per i dipinti presenti risalenti a quell’epoca, l’altra “romana” per la presenza dei riquadri a tema delle pareti (si riconoscono Muzio Scevola davanti al re Porsenna, il combattimento tra Lapiti e Centauri).  Non mancano scene allegoriche, le stagioni, motivi vegetali, ecc. Poi troviamo le stanze d’inverno, commissionate dai Morelli nel 1727, rivestite di pino cembro. Le camere erano riscaldate da stufe che, com’è ancora possibile osservare, erano alimentate dall’esterno. Fantastico il panorama sulle Alpi Orobie, facendo crescere in modo esponenziale la nostra meraviglia.

Saliamo al secondo piano, che era destinato al personale dipendente (cucine, dispensa, sala da pranzo), e alla vita privata dei proproetari. Lo testimonierebbe la presenza del ciclo pittorico delle “Metamorfosi” di Ovidio" che, evidentemente, alla servitù non poteva servire. Aragonus Aragonius è il nome dell’artista bresciano che esegui gli affreschi nel 1580.

Nelle restanti sale sono stati riassemblati dei cicli di affreschi che furono strappati da altri edifici valtellinesi; in tal modo sono ricomposte intere sale come nell’originale (la prima, risalente al 1534, è la “Camera Picta” e proviene da Casa dell’Oro, già Vertemate, di Traona).  Non mancano nemmeno qui elementi enigmatici, scritte relative all’umiltà e il trigramma eucaristico. Assolutamente degna di attenzione la cosiddetta “Stua a baule”, in cui è stata ricostruita un’originale stua di epoca medievale proveniente da una casa della famiglia Quadrio di Ponte in Valtellina, di cui la stanza reca gli stemmi. E’ completamente rivestita di pino cembro, con sottili travi parallele intagliate a motivi floreali e soffitto voltato. Uno spettacolo che non ricordavamo di avere mai visto prima.

 

 

 


[1] Sono qui tumulati: Azzo II Besta e suo figlio Carlo, Andrea Guicciardi, che fu tutore e patrigno di Azzo II

[2]  Besta di Teglio sul sito del SIUSA (Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche)

[3] La Valtellina, dal punto di vista ecclesiastico, dipendeva dal Vescovo di Como.  Mentre civilmente, dopo essere stata soggetta al vescovo comasco stesso e al Comune di Como, dalla metà del XIV secolo passò sotto il Ducato di Milano. Gli svizzeri confinanti del Canton Grigioni, che già dal 1494 erano penetrati nella valle approfittando di incursioni straniere, nel 1512 firmarono un patto di annessione della valle stessa, garantendone i privilegi e le consuetudini. Il dominio dei Girigioni sulla Valtellina durò dal 1512 al 1797. Dal 1512 Teglio, come altri territori della valle, entrò a far parte della Repubblica delle Tre Leghe

[4] Guicciardi, ramo della famiglia dei Cavalieri di Santo Stefano, sul sito SIUSA

[5] Marcello Funagalli “Animali e Alchimia” in Macrocosmo e Microcosmo, pubblicato anche in questo sito, per gentile concessione, al link

[6] Tipo di forma metrica

[7] Fabio Gasti (a cura di) “Seneca e la letteratura greca e latina. Per i settant’anni di Giancarlo Mazzoli”, Pavia University Press, 2013, Atti della IX Giornata Ghisleriana di Filologia classica, Pavia, 2010.

[8]Sulla figura di Ercole è certo che vi sia; infatti questo personaggio rappresenta l’eroe, al pari di Cadmo, Ares, Marte, Perseo, ma anche San Giorgio, ecc. in cui è da ravvisare il principio igneo, chiamato zolfo dei filosofi. Ercole deve superare le dodici fatiche (prove iniziatiche) per giungere alla realizzazione dell’Opera

[9] Palazzo Besta. Un antico palazzo rinascimentale adibito ad uso museale (v. link)

[10] Il 19 novembre 2011 e il 3 dicembre 2011

[11] Una prima versione fu redatta tra il 1504-1507, un’edizione (incompleta) comparve a Ferrara nel 1516, per gli Estensi; una seconda edizione, riveduta, venne pubblicata nel 1521, sempre a Ferrara; una terza edizione, ampliata e completata, si ebbe nel 1532, ancora a Ferrara. Sarà quella definitiva.

[12] Stua=rivestimento ligneo o "boiseries”, caratteristico della Valtellina

Links utili:

Argomento: Palazzo Besta

Maria Cellina

Maria cellina | 30.11.2014

Un gioiello del Rinascimento Valtellinese!
Peccato che gli orari per le visite, sarebbero da rivedere!!!!!

Artisolo

Simone | 14.04.2014

Bellissimo come sempre, Marisa

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